La stampa cromogenica è la tradizionale forma di stampa fotografica a colori praticata nella seconda metà del Novecento. Nota internazionalmente con le denominazioni dye coupler print e silver halide print, consiste nella stampa fotografica ottenuta da una matrice in pellicola che può essere un negativo, una diapositiva oppure da sistemi di proiezione e stampa che utilizzano un file digitale.

La stampa cromogenica fu per circa mezzo secolo il metodo commerciale più comune per produrre stampe fotografiche a colori. Il processo cromogenico prevede l’impiego di un supporto costituito da tre strati di gelatina, ciascuno dei quali formato da un materiale fotosensibile (alogenuri d’argento) insieme ad uno specifico accoppiatore colorante di colore sottrattivo. I tre strati sovrapposti sono in grado di produrre, in visione a luce riflessa, immagine a colori generata per sintesi sottrattiva grazie ai colori primari ciano, magenta, giallo.  

Il chimico tedesco Benno Homolka fu il primo ad osservare che l’ossidazione di indossile e tioindossile era in grado di produrre colorazioni insolubili in rosso e verde nei materiali fotosensibili. Tuttavia questa scoperta non fu applicata per giungere allo sviluppo di un processo fotografico a colori.

Nel 1912 un altro chimico tedesco, Rudolf Fischer, brevettò un processo cromogenico per lo sviluppo di positivi o di negativi che sfruttava gli sviluppatori ossidati. L’anno successivo egli brevettò l’uso di vari sviluppatori colore ed accoppiatori di coloranti ancora oggi impiegati. Fischer non riuscì però a realizzare stampe a colori commercialmente accettabili tenendo ben separati gli accoppiatori di tinta presenti nei diversi strati, che tendevano a migrare reagendo con le sostanze chimiche adiacenti. Ciascuno dei tre strati deve infatti, per poter generare la sintesi sottrattiva dei colori, interagire esclusivamente con uno specifico accoppiatore di colore corrispondente al proprio colore primario.

Due tecnici dell’azienda tedesca Agfa, Gustav Wilmanns e Wilhelm Schneider, riuscirono a produrre stampe a tre strati di gelatina contenenti copulanti colore per la sintesi sottrattiva utilizzando catene di idrocarburi ed acido carbossilico o acido solfonico. Questa soluzione permise di trasformare i copulanti colore in micelle che si disperdono e si uniscono facilmente nella gelatina.

Agfa brevettò nel 1936 il processo fotografico e lo sviluppo per stampe a colori che sfruttavano questo principio. La conseguenza commerciale fu la produzione nel 1936 di Agfacolor Neu, un sistema di stampa cromogenica a colori da diapositiva.

Kodak rivolse la ricerca in una direzione differente utilizzando catene ioniche insolubili di carbonio, più corte di quelle che caratterizzavano i copulanti Agfa. Tali sostanze restavano inglobate in finissime goccioline disperse negli strati di gelatina.

Pagina con lo schema a strati (integral tripack) per la fotografia cromogenica a colori a sintesi sottrattiva. Brevetto Kodak US2113329A del 1938.

Un primo decisivo passo verso la stampa fotografica a colori alla portata di chiunque furono le Minicolor Kodak, prodotte a partire dal 1941. Si trattava di «Full-Color Prints Made from Film Transparencies» e pertanto di un processo di stampa a colori positivo-positivo che impiegava come matrice le diapositive Kodachrome.
Le stampe MINICOLOR furono inizialmente prodotte nei formati “2X” (2¼” x 3¼” ) e “5X” (5” x 7½” ) ed in seguito “8X”.
L’aspetto e la consistenza sono quello di una carta da gioco piuttosto sottile, con gli spigoli arrotondati. Il supporto bianco opaco è realizzato in acetato di cellulosa.
[qui un approfondimento sulle stampe Minicolor Kodak]

Nel 1942 Kodacolor fu la prima pellicola cromogenica a colori a poter essere sviluppata da negativo. L’economia e la semplicità di trattamento, rispetto alle soluzioni proposte dai concorrenti, decretarono l’immediato successo di questo prodotto che divenne presto molto popolare anche tra gli amatori.

Negli Stati Uniti, a partire da circa il 1960, la stampa fotografica a colori prese progressivamente il sopravvento sul consumo delle tradizionali stampe in bianconero.

Ciò fu reso possibile dalla commercializzazione, iniziata nel 1955, della carta a colori cromogenica Kodak "Type C", la prima carta colore negativa distribuita ai laboratori esterni ed ai singoli fotografi. Nel 1958 la denominazione mutò in "Kodak Ektacolor Paper" ma "Type-C Print" è rimasto come termine per indicare genericamente le tradizionali stampe a colori cromogeniche da negativo.

Il trattamento chimico più comune per la stampa fotografica a colore è il processo RA-4, denominazione commerciale dei chimici Kodak per la stampa a colore su carta. Fuji, Agfa ed altri produttori hanno fabbricato carte e prodotti chimici equivalenti e tra loro compatibili.

Il processo RA-4 è impiegato ancora attualmente (2018) per la stampa su carta fotografica da file digitale. Le carte per stampa cromogenica professionale ora in uso sono le Kodak Endura e le  Fujifilm Crystal Archive.

La stampa cromogenica a colori su carta può essere anche realizzata con processo a inversione da positivo a positivo. In tal caso si utilizza il termine Type-R print, con trattamento R-3, ma questa tecnologia risulta praticamente abbandonata dagli inizi del Duemila.

Ilfochrome, successore del Cibachrome fu un processo di stampa colore positivo-positivo nato nel 1963. Questa tecnologia comporta l’impiego di coloranti azoici, estremamente stabili nel tempo, già presenti nel supporto primario che pertanto non  si producono con il tradizionale uso di copulanti colore. Si tratta dunque di un trattamento a distruzione: lo sviluppo prevede l’eliminazione selettiva dei coloranti azoici fino alla formazione dell’immagine da osservare per riflessione per effetto della sintesi sottrattiva. Il materiale è costituito da 13 strati di coloranti azoici sigillati in poliestere. La sua produzione è cessata nel 2012.

Attualmente si effettua la stampa fotografica cromogenica a colori da file digitale convenzionalmente denominata digital Type-C print. Questo procedimento, come ovvio, non utilizza più come matrice la tradizionale pellicola negativa e richiede particolari dispositivi digitali di esposizione e stampa quali Durst Lambda, Océ LightJet e ZBE Chromira.

LightJet e Lambda fanno uso di laser RGB che agiscono su materiali fotosensibili nei quali si produce un’immagine latente che viene poi trattata con i chimici della fotografia argentica convenzionale. Chromira impiega invece luce LED. Tutti questi sistemi di stampa prevedono il controllo e la standardizzazione della qualità di stampa attraverso l’impiego dei profili colore ICC.

La medesima tecnologia di stampa digitale può essere impiegata per produrre stampe da file su supporto fotosensibile baritato in gelatina al bromuro d’argento.

La stampa fotografica a colori può essere effettuata anche utilizzando la sublimazione termica (trasferimento termico). Le stampanti a sublimazione sfruttano un processo di trasferimento del colore su supporto cartaceo carta o plastica. Il colore è presenti in cartucce che contengono un nastro di cellophane sul quale si susseguono settori CMYO (cyan, magenta, yellow, overcoating: ciano, magenta, giallo e rivestimento). Il colore è sotto forma solida di polimero e sublima alle alte temperature prodotte dalla testina di stampa, trasferendosi e fissandosi al supporto. I caricatori a nastro possono utilizzare i colori della sintesi sottrattiva, ma anche pigmenti carbongrafici in nero oppure oro, argento… La stesura dello strato protettivo è necessaria per preservare il colore dalla successiva nuova e progressiva sublimazione che col tempo porterebbe causare lo scolorimento dell’immagine.

© 2018 by Gabriele Chiesa

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