Il consumo e spesso lo spreco che della fotografia oggi facciamo ci ha
portato a perdere coscienza del significato e della funzione sociale che
le immagini ottico-meccaniche hanno fino dalla loro nascita svolto. Le
numerose fotografie che scattiamo con macchine sempre più automatizzate
finiscono frequentemente nella spazzatura dopo aver girato un po' per casa
o, nella migliore delle ipotesi vengono disperse in qualche cassetto. Pochissime
persone conservano l'uso di ordinare le stampe negli appositi raccoglitori,
commentandole poi con poche frasi didascaliche o battute ironiche; quasi
nessuno le usa come oggetto di scambio inviandole a congiunti ed amici.
Eppure un tempo non ancora tanto lontano le immagini
proprie o della famiglia intera venivano regalate in segno di stima, si
spedivano per posta affinché i parenti lontani si confermassero
nella saldezza dei vincoli di solidarietà che legavano i familiari.
Entrare in uno studio per farsi ritrarre era una scelta che si faceva consapevoli
delle funzioni che Le immagini ottenute avrebbero poi svolto. Le stampe
erano così caricate di tensioni e valori emotivi che spesso la posa
stessa e lo sguardo tradivano.
La rarità e il costo delle riprese aumentavano
ancor più il livello di coscienza delle implicazioni che il rito
fotografico comportava.
Fino al momento dell'invenzione di Niepce e Daguerre
la raffigurazione privata era riservata alla più ricca nobiltà,
è quindi logico che tutti coloro che varcavano la soglia di uno
studio fotografico si sentissero elevati alla dignità di coloro
che fino ad allora avevano fruito dei costosi servizi dei pittori. Gli
abiti indossati sottolineavano la promozione sociale di cui si era oggetto,
se non se ne possedevano adeguati il fotografo stesso era in grado di noleggiarne
per una modesta cifra, fornendo anche guanti cilindro e ghette.
Un contenuto sacrificio economico consentiva cosi
di ottenere un'appropriata e dignitosa immagine di sé che, pur corrispondendo
raramente alla realtà, era in grado di servire come presentazione
presso le persone che la ricevevano. Non a caso il tipo di stampa più
diffuso a cavallo dei due secoli si chiamava proprio "formato visita".
Il professionista consegnava in genere 6 o12 copie,
il numero stesso spiega che le fotografie erano destinate alla distribuzione.
Dato che la ripresa avrebbe poi dovuto servire di ricordo il livello di
qualità ritenuto accettabile era allora molto elevato, il professionista
doveva così possedere un patrimonio di abilità e conoscenze
complesso, il procedimento artigianale dalla sensibilizzazione della lastra
al montaggio del prodotto finito sul cartoncino, era interamente sotto
il suo controllo, l'impossibilità di usare efficienti illuminazioni
artificiali gli imponeva di conoscere l'uso della luce naturale alla stessa
maniera del pittore e proprio di questo titolo, accanto a quello di fotografo,
si fregiava.
Lo studio era allestito all'ultimo piano, in modo
che da ampie vetrate potesse entrare la luce del sole che veniva sapientemente
regolata e diffusa con un complicato impianto di tendaggi. Fino a quando
la tecnica non fu in grado di produrre emulsioni sufficientemente sensibili
erano comuni accessori montati su aste metalliche che servivano per mantenere
ferma la testa dei soggetti. Sempre a causa della lentezza dei materiali,
le persone venivano riprese sedute o, quanto meno, con le mani appoggiate
a seggiole, colonnine, tendaggi, ecc. in modo che la posa non desse luogo
al "mosso". Il cliente saliva su una pedana coperta da un tappeto
che, con il ricco fondale dipinto, doveva dare l'impressione di quel po'
di lusso che con le stampe si aveva diritto ad acquistare.
Questi angoli di studio apparivano come piccoli palcoscenici in cui, in effetti, chiunque fosse disposto a spendere poche lire, ricco, nobile o straccione che fosse, poteva recitare, per una volta almeno nella vita, la parte del protagonista; con questa decorosa immagine sarebbe stato conosciuto dai posteri.
Gabriele Chiesa