Avvicinare la fotografia cominciando dal punto di vista storico
è utile perché permette di comprendere quali sono stati i
problemi che essa ha risolto, i compiti che si è assunta e i
condizionamenti che ha subito.
Il desiderio di registrare automaticamente
le immagini risale alla preistoria, quando l'uomo primitivo
imprimeva il segno della mano sporca di fango su di una roccia
liscia. La soluzione del problema ha richiesto l'applicazione
congiunta di due distinte invenzioni: la proiezione di
un'immagine su una superficie e l'impressione stabile ed evidente
della figura su un supporto sensibile alla luce. Diverse scoperte
nei campi dell'ottica e della chimica hanno perciò portato al
risultato finale della fotografia.
Pare che, per primi, alcuni studiosi arabi
(Al-Kindi e Al-Hazen) abbiano osservato che all'interno di una
camera buia, praticando un piccolo e sottile foro su di una
parete, si può vedere un' immagine confusa dell'esterno
proiettata capovolta sulla parete opposta; ce ne riferiscono
traduzioni latine precedenti il 14OO. Le applicazioni del
principio della "camera obscura" vengono più
frequentemente descritte a partire dal 15OO e il primo disegno
dell'invenzione è su un libro del 1544. Naturalmente anche il
nostro Leonardo se ne occupa... Il semplice buco (foro
stenopeico), durante il '6OO viene rimpiazzato da una lente a
menisco e la camera obscura si trasforma lentamente in una
scatola con uno specchio che rinvia l'immagine su un vetro, dove
con un foglio è possibile ricalcarla. La figura è piuttosto
imprecisa a causa della cattiva qualità degli obiettivi e
richiede una discreta abilità per essere riprodotta da un
disegnatore. Alcuni pittori se ne servono per studiare la
prospettiva dei panorami (Canaletto). I meno dotati
artisticamente cominciano a sognare che sarebbe bello rendere
stabile ciò che si vede sul vetro, il lavoro potrebbe essere
così eseguito in un tempo eccezionalmente breve e moltissimi
"quadri" sarebbero così fabbricati con facilità e a
basso prezzo. Si trattava insomma di moltiplicare l'informazione
visiva così come la stampa aveva permesso di fare con le idee
scritte. La stampa con matrici incise a mano è invece lunga,
difficile e di conseguenza costosa.
Per quanto riguarda l'aspetto chimico del problema fotografico, l'azione della luce su alcuni pigmenti era conosciuta da secoli (consigli di Plinio sulla conservazione dei dipinti lontano dall'illuminazione diretta), mentre il suo effetto sul cloruro d'argento fu riconosciuto e documentato scientificamente alla fine del 1700 (Scheele). Alcuni (Wedgwood) ottennero immagini per contatto ma non riuscirono a fissarle. Tra i tanti che fecero esperimenti con la camera oscura, N. Niepce è il primo ad ottenere qualcosa con delle lastre di metallo ricoperto di bitume di giudea (sostanza che schiarisce debolmente alla luce).
Egli lavorava con questa sostanza che
diventa insolubile nelle zone esposte, nel tentativo di ottenere
una matrice fotoincisa buona direttamente per la stampa
tipografica. I risultati non furono però mai qualitativamente
adeguati e Niepce si trovò costretto ad accettare un rapporto di
collaborazione con Daguerre, un pittore-scenografo che si
interessava, anche per motivi professionali alle sperimentazioni
con la camera obscura.
Daguerre abbandona presto la direzione
apparentemente priva di sbocchi che il suo socio aveva scelto per
le ricerche, giungendo infine all'invenzione del
"dagherrotipo" (1837). Il procedimento non viene
brevettato perché sarebbe praticamente impossibile riscuotere
diritti da tutti coloro che lo utilizzassero.
Grazie ad una serie di manovre politiche
l'invenzione viene perciò acquistata dal governo francese che ne
liberalizza la pubblicazione. Daguerre ne ricava una lauta
pensione. Il dagherrotipo consiste in una lastra di rame
rivestita di argento che viene esposto all'azione dello iodio.
L'immagine, accennata in modo lieve nella fotocamera, diventa
evidente e positiva ai vapori di mercurio e viene fissata con un
lavaggio in acqua salata calda. I tempi di posa normali sono
compresi tra i 5 minuti e l'ora, ma i miglioramenti che subito
seguiranno l'annuncio e la divulgazione ufficiali (1839),
apportati specialmente da fotografi americani, abbasseranno la
posa ad una manciata di secondi (184O).
Intanto in Inghilterra Talbot lavorava per conto suo con una carta al cloruro d'argento ed otteneva le prime negative su carta (1834). La luce che entra nella camera obscura era però troppo debole per produrre l'annerimento diretto in condizioni normali di illuminazione. Talbot stabilizza le immagini con acqua salata ma, consigliato dallo scienziato Herschel adotta l'"iposolfito di sodio" che risolve definitivamente il problema del fissaggio. Tale sistema viene immediatamente adottato da tutti, anche per la dagherrotipia.
Talbot scopre la possibilità di
"sviluppare" i fogli impressionati anche se l'argento
metallico (nero) non si è ancora visibilmente formato (184O). La
carta, resa trasparente con la ceratura, viene utilizzata come
negativo per la stampa di un numero elevato di copie. Una volta
trovata una sostanza sufficientemente adesiva e in grado di
tenere dispersi bromuro e cloruro d'argento (collodio, 1851),
l'alogenuro d'argento viene steso su vetro. Un debole negativo di
questo tipo, opportunamente trattato, può essere trasformato in
un positivo diretto (ambrotipia), altrimenti è un negativo per
la stampa sulla "carta salata", presto sostituita dalla
carta all'albumina (dal 185O).
Il passo successivo dei materiali sensibili
sarà la gelatina (1871). Si scoprono sostanze fotosensibili che
non richiedono argento (bicromato di potassio...), le
applicazioni che ne deriveranno conducono ai vari procedimenti di
fotoincisione. Nascono e si diffondono una serie di raffinate
tecniche fotografiche che sfruttano la caratteristica del
bicromato di divenire insolubile se esposto alla luce (carbone,
bromolio...). Fino verso la fine del '8OO resiste la ferrotipia,
una tecnica che, come consumo popolare, godrà di fortuna nelle
località di villeggiatura e nelle fiere. Il colore diventa
praticamente accessibile dal 1927 (F.lli Lumiere).
Dalla scoperta della fotografia fino ad oggi si può dire che nulla sia stato lasciato di intentato e niente è più assolutamente originale.
La fotografia è stata usata per una
infinità di scopi diversi. Prima quasi solo come documentazione,
per mostrare posti, persone ed avvenimenti lontani, per fare
conoscere opere d'arte e paesaggi. A causa delle difficoltà
tecniche connesse all'uso in esterni della fotocamera, l'impiego
più comune fu quello della ritrattistica. I miniaturisti
scomparvero. Molti di loro diventarono fotografi per necessità e
travasarono le regole del loro genere nella fotografia,
condizionandone gli sviluppi successivi ai canoni della pittura.
La fotografia non veniva considerata come arte autonoma (i primi dagherrotipisti non osavano neppure firmarsi). Le immagini servivano, al massimo, come bozzetti per i pittori, l'"Arte" arrivò in seguito, reclamata dai professionisti che volevano darsi un tono. I ceti in ascesa accettarono accettarono volentieri questa invenzione che permetteva di farsi fare un ritratto come solo i ricchi e i potenti avevano fino ad allora potuto.
Le fotografie divennero oggetti di regalo e
vennero scambiate come biglietti da visita. Le loro raccolte
fecero nascere l'esigenza dell'album.
La fotografia viene usata per farsi
riconoscere e presentare il proprio status sociale, anche
raccontando bugie (abiti in prestito e finti fondali sfarzosi).
la capacità di mentire, propria di questo mezzo, viene subito
compresa ma si sfrutta la sua apparente obiettività per lascia
credere che essa rappresenti con fedeltà il reale. Trucchi e
foto costruite convivono, senza possibilità di riconoscimento
rispetto alle immagini più spontanee.
L'aspetto dignitoso e impettito dei nostri
bisnonni dipende anche dai lunghi tempi di ripresa che
costringono a quella che, sempre a causa della pittura, si chiama
posa. L'abitudine di posare composti come generalmente ci
piacerebbe essere rimane anche dopo la soluzione dei problemi
tecnici che richiedevano l'immobilità.
Gabriele Chiesa