La dagherrotipia venne accolta con favore dalle classi
in ascesa che riconobbero nella lastrina di rame argentato un supporto
sufficientemente degno per la loro immagine. Allo stesso modo, la confezione
elegante dell'ambrotipia non fece rimpiangere la presentazione delle miniature.
Bisognava però che anche gli strati sociali più bassi fossero
messi in grado di farsi ritrarre perché la grande rivoluzione democratica
della fotografia potesse dirsi completata.
Uno degli strumenti privilegiati
della divulgazione popolare si dimostrò essere la ferrotipia. Questa
tecnica nacque in America e si diffuse, affermandosi rapidamente, anche
in Europa.
L'identificazione del processo richiede qualche chiarimento;
avviene infatti che lo stesso termine indichi tecniche diverse tra loro.
La ferrotipia vera e propria venne messa a punto da A.A. Martin nel 1852;
egli utilizzava una lastrina di metallo annerita e ricoperta di collodio
umido. II processo originario, presto migliorato da Monckhoven, era noto
anche come melainotipia. Successivi perfezionamenti vennero apportati nel
1856 da un altro Americano, Hannibal L. Smith, che chiamò tintipia
la sua invenzione; questo è il nome che nei paesi anglosassoni definisce
la stampa su lastrina di ferro.
Per aumentare la confusione bisogna aggiungere
che lastre laccate per ferrotipia vennero impiegate anche per smaltare
stampe su carta, comprimendole e facendole asciugare contro la superficie
liscia; tali stampe vennero perciò da qualcuno impropriamente chiamate
ferrotipiche.
In sostanza i vari procedimenti si riducono all'·inversione·
apparente dell'immagine direttamente impressionata sulla lastra; si tratta
quindi di un positivo ottenuto in copia unica, proprio come I'ambrotipia
e la dagherrotipia. I lati della fotografia appaiono perciò invertiti.
L 'insistenza che diversi fotografi dimostrarono nella ricerca di sistemi
che consentissero di ottenere immediatamente un'immagine positiva è
giustificata dalle richieste dell'utenza.
Per i clienti la fotografia si
esauriva (e molti la pensano così ancora oggi) nell'atto della ripresa;
le operazioni successive, considerate una perdita di tempo, costituivano
un ostacolo obiettivo al consumo. Perché questa sorta di polaroid
ottocentesca impiegava proprio il ferro quando erano noti sistemi sostanzialmente
equivalenti, che impiegavano la carta, fino dal 1839 (H.Bayard)? Probabilmente
i fattori di ordine psicologico hanno giocato un ruolo non irrilevante.
Nel secolo delle invenzioni e del trionfo del progresso, il ferro costituiva
un simbolo di tutti i vantaggi della tecnologia e nel contempo offriva
garanzie di resistenza apparentemente valide. In realtà, la plasticità
e l'ossidabilità di questo materiale hanno condannato ad una rapida
distruzione le enormi quantità di immagini che furono prodotte con
tale processo nell'arco di una quarantina d'anni dal momento della sua
scoperta.
Quando la lamina viene incurvata per una causa qualsiasi è relativamente facile che si stacchino scaglie di lacca; frequentemente il collodio si fessura minutamente e I'aria e I'umidità penetrano innescando pericolosi processi di ossidazione.
Anche la laccatura del dorso si è dimostrata spesso insufficiente a prevenire la ruggine. Bollicine, rigonfiamenti, screpolature, sono I'aspetto abituale delle rare ferrotipie che sono sopravvissute.
La ferrotipia, grazie alla rapidità e all'economia
del processo, rimase comunque, per alcuni decenni, il cavallo di battaglia
di molti fotografi ambulanti. Costoro giravano di fiera in fiera allestendo
il loro "studio" agli angoli delle strade e nelle piazze: un
lenzuolo bianco alle spalle dei soggetti ed una seggiola impagliata ne
costituivano lo scarno arredamento.
Dato che la clientela era costituita
evidentemente da gente di passaggio, la caratteristica più importante
che I'immagine doveva possedere era quella di essere immediatamente disponibile.
La qualità dell'illuminazione era quella che le condizioni meteorologiche
rendevano possibile, il fondale bianco di cui si è detto serviva
per aumentare il rilievo dell'immagine. Siamo qui ben lontani dai margini
di intervento di cui godevano i più noti professionisti: negli ateliers
un complesso sistema di tendaggi consentiva di regolare con precisione
la luce proveniente dalle ampie vetrate disposte lungo le pareti e il soffitto.
II procedimento ferrotipico, non era in grado di
fornire bianchi puri, il contrasto ottenibile era perciò piuttosto
insoddisfacente; la mancanza di profondità di queste riprese era
poi aggravata dall'assenza di quegli accessori scenografici a cui I'ambulante
doveva rinunciare per ovvi motivi di peso e d'ingombro. D'altra parte,
contadini, piccoli commercianti, mediatori e artigiani si accontentavano
facilmente, soddisfatti della sola idea di possedere comunque un ritratto.
Oltre che nei mercati paesani la ferrotipia venne praticata con un certo
successo da alcuni professionisti che operavano stagionalmente presso note
località di cure termali (soggiornare al mare per prender bagni
era ancora prematuro). La rapidità di consegna era anche in questo
caso il fattore determinante.
La ferrotipia si presenta prevalentemente con fondale
chiaro ma si conoscono anche rari esemplari con sfondo dipinto; in non
pochi casi essa è coperta da una coloritura superficiale, applicata
per vivacizzare il contrasto e dare più rilievo al ritratto. Sembra
che questa tecnica non sia mai stata utilizzata per riprendere panorami
anche se eccezionalmente è stata impiegata in esterno per ritratti
informali (senza il solito lenzuolo).
Quasi tutte le immagini realizzate
in ferrotipia risultano anonime, la raffigurazione è di gusto molto
popolare e la gente che vi compare è abbigliata in modo più
grossolano di quanto lo fossero i clienti dei fotografi di città
(che peraltro disponevano a volte di un guardaroba per il noleggio, adatto
a favorir menzogne sulle condizioni sociali dei soggetti). In molte zone
agricole questa fu la prima applicazione della fotografia ad essere conosciuta
direttamente.
Gabriele Chiesa