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La dagherrotipia

© 2000 by Gabriele Chiesa


L'immagine della fotografia è per noi strettamente correlata all'idea del rettangolo di carta che ne costituisce il supporto; cartoncino e raffigurazione si presentano oggi come un insieme inscindibile che non consente reali alternative.

Astuccio aperto con dagherrotipia

Durante tutto 1'800 la situazione era ben diversa; ogni rappresentazione fotografica veniva indicata con un nome speciale perché l'originalità di ciascun procedimento conduceva ad oggetti che non potevano essere tra di loro confusi. Di queste immagini ne furono certamente prodotte quantità enormi, ma il tempo e la delicatezza connaturata ai materiali le hanno rese veramente poco comuni.

Dagherrotipia, calotipia, ambrotipia, ferrotipia occupano un posto di particolare interesse nel campo del collezionismo delle fotografie d'epoca e meritano di essere separatamente considerate. Tutte queste forme di rappresentazione si affermano in gran parte grazie al favorevole atteggiamento della borghesia in ascesa, molto disponibile verso tutto ciò che può essere in grado di nobilitarla. La raffigurazione personale, fino ad allora privilegio dei nobili e dei ricchi mercanti, diventa ragionevolmente accessibile a tutti quelli che non sono nella condizione di dover lottare quotidianamente per la sopravvivenza. Il materiale costoso e le raffinate manipolazioni che il processo dagherrotipo richiedeva non resero comunque mai veramente popolare questa tecnica e il possesso di un tale ritratto equivaleva alla proprietà di un vero gioiello, quasi pregevole come la miniatura.


Dagherrotipia con coloritura manuale La confezione della dagherrotipia è quasi sempre elegantissima; essa si presenta, per lo più, come un astuccio di legno lavorato a rilievo, spesso ricoperto di pelle con impressioni raffiguranti volute e fiori. L'antina di sinistra, quando ancora esiste, è foderata di velluto, solitamente rosso, lavorato con disegni di fantasia. L'immagine è incastonata sulla destra, racchiusa in una cornicetta di rame a sbalzo; sotto al primo vetro è generalmente presente un'altra lastrina dorata che funge da passe-partout. Ricordiamo che qualsiasi tentativo di apertura dei sigilli di cui sono muniti i vetrini è destinato a provocare la rapida ossidazione della superficie argentea; d'altra parte nessuna pulizia è consigliabile, dato che anche un fiocco di cotone produce rigature vistose pur se usato con cautela. L 'immagine dagherrotipica è costituita da una lastrina di rame perfettamente spianata ed argentata su cui zone di opacità biancastra determinano l'immagine.

Il ritratto, poiché quasi universalmente di questo si tratta, è in genere ritoccato con pochi lievi colori dati a mano. Le dagherrotipie non sono praticamente mai firmate e solo raramente il fotografo faceva apporre un'impressione in oro sul dorso dell'astuccio. L'abituale impossibilità di identificare l'autore è comune a tutte le opere fotografiche di questo periodo pionieristico.

Esistono anche raffinatissimi medaglioni che le signore portavano al collo e dagherrotipie, queste meno interessanti dal punto di vista estetico, montate come quadretti da appendere. L'enorme complessità della realizzazione, la difficoltà del reperimento dei materiali adatti, l'ardua tecnica richiesta, costituiscono la migliore garanzia di autenticità e rendono praticamente impossibile l'esecuzione di falsi che non potrebbero assolutamente risultare remunerativi. Le imitazioni stesse, a questo punto, non sarebbero indegne di una collezione.

L'anno ufficiale di nascita della dagherrotipia è il 1839, in seguito all'annuncio della scoperta di Louis Jacques Mandé Daguerre, che venne pubblicamente spiegata dallo scienziato Arago il 19 agosto.

Ritratto dagherrotipico femminile La lastrina di rame argentato veniva pulita e lucidata con pazienti procedimenti manuali e sensibilizzata attraverso l'esposizione ai vapori di iodio; questo trattamento andava a formare un leggero velo opaco di ioduro d'argento caratterizzato dalla proprietà di essere fotosensibile. La lastra veniva preparata nel buio quasi assoluto ed osservata di tanto in tanto, finché assumeva una colorazione dorata.

A questo punto era pronta per essere inserita nella camera oscura, che da questo momento si avvierà a diventare una vera macchina fotografica. L'esposizione veniva valutata ad esperienza e durava un tempo che, anche in giornate di sole e servendosi dei migliori obiettivi allora disponibili, durava comunque alcune decine di secondi. Fu solo con il perfezionamento del processo di Daguerre, con la sensibilizzazione al cloro (Claudet) e l'uso del bromo, che fu possibile eseguire ritratti nitidi e con gli occhi dei soggetti aperti. Una certa immobilità era comunque sempre richiesta e le immagini che ci sono rimaste testimoniano spesso la tensione delle persone che si facevano riprendere. Ricordiamoci pertanto che la ieraticità era una condizione necessaria piuttosto che una scelta deliberata. La dagherrotipia era comunque ben più sopportabile delle interminabili sedute imposte dalla raffigurazione pittorica. Lo sviluppo della lastrina veniva effettuato con l'azione dei vapori di mercurio che producevano una patina chiara nei punti colpiti dalla luce, l'appannamento dello ioduro nelle zone rimaste più in ombra veniva eliminato con un lavaggio in acqua calda salata, presto sostituito dal fissaggio in soluzione di tiosolfato di sodio (iposolfito). L'effettiva visione della figura è possibile solo orientandosi in modo che sulla superficie speculare si rifletta qualcosa di oscuro, in caso contrario si osserva una sorta di negativo. La tecnica ottico-chimica impiegata fa sì che il dagherrotipo sia sempre esemplare unico. In Italia è piuttosto difficile reperire pezzi di origine sicuramente nazionale, dato che gli antiquari trovano più comodo acquistare in Francia o in Inghilterra dove l'offerta è certamente meno limitata.

Per quanto riguarda le possibilità di restauro delle dagherrotipie è bene ribadire che è preferibile astenersi da qualsiasi intervento a meno che la situazione sia talmente compromessa da non consentire alternative.

A questo proposito si ricordi che anche il pennello più morbido può essere usato per togliere impurità soltanto quando la lastra sia immersa in acqua distillata addizionata con un tensioattivo fotografico. È possibile preparare una soluzione a base di tiourea e acido fosforico in grado di togliere l'ossidazione superficiale, trattamento che scioglie un piccolo quantitativo di argento e non può perciò essere ripetuto a piacere. Prima di procedere all'asciugatura è in ogni caso necessario lavare in soluzione fresca di tensioattivo, sciacquare molto bene, sempre in acqua distillata, e terminare diluendo qualche goccio di alcool etilico (non quello colorato per usi sanitari) oppure metanolo. Terminiamo ricordando, a chi fosse tentato di rispolverare questo procedimento, che le sostanze usate per la sensibilizzazione e lo sviluppo sono particolarmente tossiche e la loro incauta manipolazione può produrre danni alla salute, come sperimentarono anche i primi dagherrotipisti.

Immagini:

Gabriele Chiesa





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