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Ambrotipia


© 2000 by Gabriele Chiesa




Gli ambrotipi si diffusero in alternativa alle immagini dagherrotipiche negli anni che precedettero l'affermarsi del processo negativo-positivo e, conseguentemente, della stampa su carta.

Si trattava di immagini dirette ottenute su un supporto in vetro. Le dimensioni erano generalmente simili a quelle di una dagherrotipia e il costo risultava competitivo, dal momento che la dagherrotipia era realizzata su lastre ben più costose di rame argentato.

Astuccio ambrotipico

Il processo ambrotipico produceva una sorta di negativo sottoesposto. Per ottenere l'apparente inversione dei toni dell'immagine si procedeva allo schiarimento delle zone impressionate in modo simile alla dagherrotipia. La visione risultava più agevole, dal momento che non era richiesto un particolare angolo di osservazione e di incidenza della luce, tuttavia il risultato era comunque di scarsa luminosità e basso contrasto.

I toni chiari risultano alla visione sostanzialmente dei grigi. Per ottenere le ombre e i toni neri, sul retro della lastra ambrotipica veniva stesa una laccatura nera oppure si disponeva un panno o una carta nera. Accadeva così che le parti non impressionate, e quindi trasparenti, mostrassero direttamente il nero, mentre le parti impressionate, costituite da argento metallico scuro, venivano chimicamente schiarite, generalmente con l'azione di vapori di mercurio.

Astuccio ambrotipico

Questo procedimento, più economico della dagherrotipia, venne applicato solo quando si riuscì a sfruttare un'emulsione in grado di ricevere gli alogenuri d'argento (insolubili in acqua) che presentasse anche un'adesività permanente su una superficie liscia e antiadesiva come quella del vetro. Risolto il problema di stendere materiale sensibile su lastre di vetro, obiettivo ottenuto grazie all'albume e, in seguito, con altri materiali collosi di origine generalmente animale, per giungere infine al collodio... non esistevano altri ostacoli da superare per giungere direttamente alla stampa di positivi su carta partendo da un negativo su lastra in vetro.

L'ambrotipia non è infatti altro che un negativo debole su lastra in vetro, negativo che ha subito un processo di schiarimento chimico.

La concorrenza che l'ambrotipo sviluppò nei confronti della dagherrotipia fu fondata, oltre che sulla convenienza, sull'apparenza lucida del vetro e sulla possibilità di applicare ritocchi manuali con vernici e aniline sul verso della lastra. La soluzione tecnologica costituita dall'ambrotipo consentiva montaggi e presentazioni di tipologia simile a quelle del dagherrotipo, fratello maggiore e più pregiato con cui doveva confrontarsi. Tuttavia, come detto, la tecnica da cui nasceva, portava con sé i motivi stessi del declino e della rapida scomparsa di una tipologia fotografica rapida nella realizzazione ma di discutibile resa in termini di contrasto e visibilità.

Presto si preferì utilizzare le lastre in vetro albuminato direttamente per realizzare negativi corretti ed adatti alla stampa di positivi su carta. Gli ambrotipi mantennero un certo periodo di favore popolare per circa un decennio, tra gli anni della matura affermazione del processo dagherrotipico e i primi anni delle lastre alluminate destinate alla produzione di stampe positive su carta. La loro conservazione nel tempo risultò piuttosto critica, a causa del supporto su cui venivano realizzati. Decenni di vita, con i conseguenti spostamenti e stress meccanici hanno causato la distruzione o la scheggiatura degli esemplari, per cui il reperimento di copie ambrotipiche non è molto frequente.

Gabriele Chiesa

Ambrotipia montata in cornice di lamierino





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