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L'IMMAGINE
FOTOGRAFICA:
artificio e realtà





Massimo Marighella

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L'IMMAGINE FOTOGRAFICA:
ARTIFICIO E REALTÀ

PREMESSA

L'infinita quantità di forme che si presenta quotidianamente ai nostri occhi potrebbe condurre a una affermazione frettolosa: la comunicazione attraverso le immagini visive non è analizzabile e quindi codificabile in un vero e proprio linguaggio. Bisogna dunque pensare che sia la didascalia a rendere "comunicativa" la fotografia sul giornale, che sia il titolo o il libro di critica a rendere "comunicativo" un quadro, oppure riconoscere che un'idea "passa" anche attraverso un'immagine visiva, senza bisogno di commento linguistico verbale o scritto? Il testo che segue vuole provare la veridicità, peraltro intuibile, della seconda ipotesi, spostando il fuoco dell'indagine non più sull'analisi dell'immagine come struttura, sulla sua scomposizione in teorici "elementi discreti", ma sulla trattazione della "sintesi" di questi segni a scopo comunicativo. In sostanza, la strada proposta è l'osservazione dell'immagine "complessa", sintetizzata nella sua totalità, non facendo attenzione al singolo elemento, ma al contesto e alla circostanza che ne determinano i diversi significati. Il tipo di immagine di cui si tratterà è la fotografia, mezzo figurativo ed espressivo storicamente molto controverso: la sua potenzialità comunicativa è innegabile, ma spesso viene considerato come mezzo di "riproduzione" della realtà visiva, quindi non assimilabile a un linguaggio; è infatti ovvio che un linguaggio implica necessariamente una "volontà comunicativa" da parte di un mittente e non soltanto la capacità riproduttiva di un mezzo meccanico. Si vuole invece provare che la fotografia non è la "riproduzione" di parti più o meno casuali di realtà visiva, ma "produzione" dell'immagine visiva di un'idea; insomma, è piuttosto la mente dell'uomo a "produrre" un'immagine, non tanto il dito che preme il tasto, la luce, l'obiettivo, il materiale fotosensibile. La prima parte del lavoro punta l'attenzione sul fatto visivo come approccio immediato, psicologico-percettivo, più "emozionale" e meno "culturale" in senso stretto; si vedrà però come l'impatto stesso di un'immagine sul nostro sistema nervoso non sia "biologico", ma risenta molto della nostra esperienza visiva. La seconda parte invece riguarderà la contestualizzazione dell'immagine nei generi e nelle circostanze di lettura, facendo entrare in gioco l'elemento umano come protagonista del rapporto comunicativo.

ASPETTO PSICOLOGICO-PERCETTIVO

Si è già citata dunque l'importanza per questo lavoro degli studi sulla percezione visiva: in tal senso, il rapporto segno elementare / immagine totale riguarda, fondamentalmente, meccanismi di fruizione e lettura delle immagini a livello più analitico rispetto ai codici riguardanti la semiologia. Un eminente studioso della percezione visiva, Rudolf Arnheim, sostiene che "la forma visuale di un'opera d'arte (...) è indispensabile come precisa interprete di un'idea che l'opera intende esprimere" [1] e, nel riconoscere alla forma, ovvero al "modo" di costruire un'immagine e al "modo" in cui un'immagine comunica, un ruolo fondamentale, fa una serie di affermazioni che ci tornano utili, anche se il nostro campo di indagine si discosta dal suo. Una di queste affermazioni è quella secondo cui, nella percezione visiva, l'uomo tenderebbe a "semplificare" le caratteristiche strutturali dell'immagine che gli viene presentata. Da questa asserzione se ne deducono chiaramente delle altre: innanzi tutto la percezione diventa in questo senso un'operazione "attiva", non certo unicamente una "presa d'atto"; siamo in sostanza chiamati a "lavorare" su un'immagine, non solo a registrarne la struttura così come ci viene presentata.

Non si tratta cioé solo di raccogliere dati e memorizzarli, ma di effettuare una precisa elaborazione: questa fase consiste probabilmente nel passaggio mentale a quel "significato secondo" che in semiotica viene indicato come "connotativo". La causa di questo sarebbe, sempre secondo Arnheim, la rottura, la deviazione che l'immagine da osservare crea nel nostro sistema visivo, a livello propriamente nervoso: qualcosa cambia, turba uno stato di quiete, e il nostro cervello tende a riportare tutto alla situazione precedente, una situazione di per sé organizzata in forme semplici e ordinate. Il motivo per cui il nostro sistema nervoso si prefigura situazioni ordinate, e tende a far rientrare in queste ogni motivo di disturbo o di rottura, ce lo spiega invece Gombrich, altro studioso del "visivo", sostenendo una tesi ben precisa: si tratta di una tendenza naturale ed istintiva, ovvero quella di "organizzare" il mondo per poterlo dominare, usare, capire. La natura, di per sé caotica, in generale disorganizzata, senza soluzioni di continuità visiva, viene da noi modellata, ordinata, laddove se ne presenta la necessità.

Paradossalmente, però, è la natura stessa che presenta e fa conoscere le forme più perfette, più simmetriche, in contesti particolari: essa stessa praticamente fornisce quell'idea di ordine e simmetria a cui l'uomo tende con il lavoro percettivo. [2] Tornando quindi al concetto di "attività", implicitamente capiamo come un'immagine differisca dall'altra (sotto l'aspetto dell'interesse) anche a seconda della quantità e della qualità del lavoro necessario alla percezione; è però errato pensare che sia un'immagine particolarmente "piena" di elementi a prolungare il nostro tempo di interpretazione, poiché, anche solo due elementi, che però stentiamo ad organizzare, possono essere notevolmente più efficaci. Dunque, nella forma esiste una "tensione" che noi dobbiamo eliminare, un insieme di forze che dobbiamo equilibrare: secondo questa teoria, quindi, anche un'idea chiara ed evidente va trasmessa tenendo conto di regole formali tutt'altro che ininfluenti sul risultato comunicativo finale. Ora, riferendoci alla fotografia, una delle sue peculiarità è quella, come detto, di richiedere un'analisi a livello di testo, di "macrosegno", prestandosi teoricamente poco a un'approccio che si avvalga di una metodologia strettamente formale. Oltre a ciò, vediamo di evidenziare la differenza sostanziale dai mezzi tradizionali di produzione di immagini. Nel disegnare e nel dipingere ci si trova di fronte ad uno spazio bianco da riempire di elementi: si tratta di un'operazione "additiva". La fotografia, invece, ha a disposizione una realtà visiva caotica e, abbiamo detto, disorganizzata: essa produce immagini effettuando sulla realtà data una selezione spazio-temporale: si tratta, in altre parole, di un'operazione "sottrattiva".

In sostanza si parte o dal nulla o dal tutto, per giungere a una delle infinite possibilità intermedie: vedremo in seguito quali sono le conseguenze per la fotografia e i suoi spazi di espressione. Ci basti in conclusione ribadire due punti fondamentali:

1) all'interno di ogni immagine esiste una "tensione", altrove definita "entropia", che è proporzionale all'interesse suscitato nel fruitore ed è indispensabile veicolo di significato;

2) tale tensione si ottiene con le specificità proprie dei mezzi espressivi: la fotografia è unicamente un mezzo di selezione spazio-temporale sulla realtà visiva data.

LA PROFONDITA' NELLA "COSTRUZIONE" DELLA FOTOGRAFIA

Posto dunque l'accento sulla questione dell'interesse comunicativo derivante dalla forma visuale, citiamo alcuni esempi in cui, attraverso l'uso opportuno di metodi formali, si vengono a creare quelle condizioni di "tensione" e di stimolo fruitivo citate.

Uno di questi è l'uso della profondità, della prospettiva, elemento non direttamente trasferibile dalla realtà visiva all'immagine bidimensionale. Entra in gioco a questo proposito l'importanza della nostra esperienza visiva: in quale caso siamo portati, osservando un'immagine bidimensionale, ad avvertire la sensazione dell'esistenza di una terza dimensione? Osserviamo le fotografie 1-2-3 .

Arnheim indica due casi: il primo di questi è la profondità creata attraverso la "deformazione"."La deformazione è il fattore chiave della percezione della profondità, perché diminuisce la semplicità e aumenta la tensione del campo visivo, creando quindi il bisogno della semplificazione e di allentamento della tensione: bisogno che si può soddisfare trasferendo la forma nella terza dimensione" [3].

In pratica, il lavoro mentale di semplificazione, che finora poteva sembrare astratto, lo vediamo in concreto così nella fotografia 2:

1) la nostra esperienza ci dice che una strada conserva normalmente sempre la stessa larghezza;

2) in questa fotografia la strada si "deforma" restringendosi;

3) confrontiamo il nuovo avvenimento visivo con l'esperienza passata;

4) optiamo per la soluzione più semplice; "avvertiamo" la profondità dell'immagine: la strada si deforma poiché si allontana dal nostro punto di vista in senso longitudinale.

Nella fotografia 1 ("piatta" per definizione, ovvero smaccatamente bidimensionale) questo lavoro mentale, brevissimo ma innegabilmente esistente, non è necessario: in termini banali possiamo dire che la strada "conferisce" profondità all'immagine, ne svela i meccanismi di prospettiva; sarebbe bastato riprendere lo stesso paesaggio stando sull'altro ciglio della strada per annullarne gli effetti.

Chiunque direbbe "a occhio" che la seconda fotografia è migliore della prima, anche se non è certamente la bellezza di una strada a causare questo: è l'elemento figurativo che, in modo peraltro abbastanza banale, costringe ad "osservare", ad essere "attivi" nella fruizione, in quanto riesce minimamente a creare "tensione". Possiamo parlare in questo caso di profondità "longitudinale", in quanto legata a un elemento (o a più elementi) che si estendono su vari piani, che vanno, in altri termini, dal punto dell'osservatore fino all'orizzonte. Il secondo caso è quello che potremmo definire della profondità "trasversale", ovvero ottenuta per "sovrapposizione" di più elementi situati apparentemente su un unico piano.

Nella fotografia 3 infatti troviamo più elementi a vari livelli di profondità, tanto da non riuscire ad identificare lo sfondo, sempre che non si consideri tale il piano posteriore a tutti (ma non sarebbe lo sfondo "racchiudente" definito da Arnheim). In special modo i rami in primo piano (più che il primo ponte) che occupano 1/4 del campo visivo, tendono anche qui a dare profondità, a creare tensione, analogamente ai casi succitati: anche qui l'occhio lavora per organizzare i vari piani e la tridimensionalità.

Arnheim sostiene nuovamente il principio della scelta più semplice: con la sovrapposizione ci troviamo di fronte ad oggetti incompleti, tagliati, mentre la nostra esperienza ci dice che esistono integri in tutta la loro configurazione. Scegliamo nuovamente l'ipotesi più semplice, allora, e cioé quella dell'esistenza di più piani di profondità: l'immagine ha centrato il suo intento.

LA LUCE NELLA PERTINENZA DEGLI ELEMENTI

Un secondo metodo formale da evidenziare è la luce, che riveste di per sé una grossa importanza in qualsiasi mezzo figurativo, ma più ancora nella fotografia. Osserviamo le fotografie 4-5.

Nella prima si avverte immediatamente che il "soggetto" è ciò che si vede a malapena sullo sfondo; non sempre è possibile scattare una fotografia togliendo "fisicamente" dal campo visivo gli elementi di disturbo. Se il fotografo non poteva forzatamente spostarsi, è ovvio che la fotografia sia risultata così inefficace: oltretutto, e qui si confermano le possibilità creative e non riproduttive dell'elemento umano nella fotografia, il voler ritrarre uno spazio lontano in pieno sole stando in un luogo in ombra (anch'esso parzialmente ritratto) ha creato un noioso effetto di "sovraesposizione". In pratica, l'elemento pertinente è risultato troppo chiaro, quindi sfumato e quasi indecifrabile, mentre l'elemento non pertinente, che andava se mai oscurato, è risultato visibile ed evidente.

Emerge quindi sempre di più un aspetto "costruttivo" della fotografia; fermo restando il metodo di selezione spazio-temporale, la fotografia sembra tenere in gran conto non tanto il problema di quali elementi selezionare, ma piuttosto quello della necessità assoluta di togliere quelli che disturbano. Parlando in termini semiotici, la naturale dualità di elementi pertinenti ed elementi non pertinenti presenti nell'immagine è estremamente distruttiva nella fotografia. La selezione non deve solo riguardare il "segnale", ma quasi esclusivamente deve occuparsi del "rumore": sostanzialmente, per attenuare appunto il rapporto segnale/rumore, il mezzo fotografico deve propendere per la riduzione del segnale di disturbo, al contrario ad esempio della pittura che ha la libertà di aumentare a piacimento il segnale, ovvero il numero degli elementi pertinenti.

La fotografia 5 invece ci illustra un sapiente uso della luce al fine di eliminare elementi di disturbo, anche se ad un esame frettoloso tale soluzione appare non indispensabile.

In tale immagine osserviamo come la cupola sulla destra risulti completamente nera, lasciando visibili esclusivamente i contorni: a prima vista ciò sembra casuale. Osservando attentamente, però, ci domandiamo se tale figura fosse o no un elemento pertinente: esso è chiaramente pertinente all'identificazione del luogo, in quanto le persone, vero soggetto della fotografia, così distanti potrebbero appartenere a qualsiasi popolazione. La funzione contestuale geografica allora viene assolta esclusivamente dai contorni della cupola: sappiamo benissimo come tali cupole siano piene di motivi architettonici che avrebbero potuto essere di "disturbo", superflui alla funzione voluta, "rumore". Tali elementi di eventuale "distrazione" sono stati eliminati dal sapiente "controluce".

La luce, comunque, elemento fondamentale per qualsiasi mezzo espressivo che si esplica attraverso immagini, è fondamentale anche per un discorso spaziale e costruttivo: senonché nella fotografia emerge la peculiarità dell'uso della luce già esistente nella "materia", nella realtà visiva disponibile. Il pittore "crea" la luce, mentre il fotografo, se ci riferiamo alla fotografia in esterni, usa e modella quella che ha a disposizione: ovviamente, la fotografia in studio segue meccanismi analoghi alla "creazione" suddetta. Interessante a questo proposito è l'analisi della fotografia 6: siamo in presenza di un uso della luce con fini opposti rispetto alla fotografia precedente.

La fotografia in controluce, abbiamo visto, consente la visione unicamente dei contorni del viso della persona in primo piano, come d'altronde la visione normale con l'occhio umano; in questo caso invece i suoi lineamenti sono illuminati e perfettamente visibili. Effettivamente, essendo l'identificazione della persona elemento pertinente, diventa necessario renderne riconoscibili i connotati, e non solo evidenziarne i contorni o il profilo (sappiamo infatti come, parlando di "contorno", il profilo sia la parte del viso umano più pertinente al riconoscimento).

Tuttavia, il discorso è interessante sotto un altro aspetto, da evidenziare: il viso illuminato, evidentemente grazie all'uso del flash, contraddice chiaramente i meccanismi di illuminazione naturale, come se trovassimo illuminata la faccia buia della luna. La rottura della "consuetudine" ottica di avere una sola sorgente di luce naturale crea indiscutibilmente "tensione" all'immagine, crea inquietudine percettiva nel fruitore, il quale si rende conto che qualcosa non va. Si apre quindi il discorso sull'originalità della fotografia intesa appunto come "differenza" rispetto alla nostra naturale consuetudine visiva.

ESSENZIALE E ORIGINALE

Nel già citato quadro di definizione della fotografia come "intervento" sulla realtà visiva attraverso la selezione di elementi pertinenti e la sottrazione di elementi non pertinenti, osserviamo la fotografia 7.

La prima impressione può essere quella di banalità, poiché si tratta semplicemente di un'auto in riva al mare. La semplicità è fondamentale: ci sforziamo di trovare qualcosa che complichi quest'immagine ma, più i nostri occhi si muovono, più trovano tratti scarni, dotati di dura essenzialità: la situazione di luce e contrasto particolare, creata abilmente dal fotografo, rende l'auto come un unico blocco scuro, sul quale si stagliano altri elementi fortemente contrastanti come ad esempio i numeri della targa, anch'essi dotati di una dura linearità.

Fuori da tale blocco c'è un ben identificato sfondo che non dà affatto l'idea di mutare al di fuori dei confini della fotografia, tanta è la sua uniformità. Nulla distrae dal rapporto fra questi due elementi, tuttavia facciamo fatica ad ammettere che sia tutto lì, che quest'immagine riesca a condensare uno spazio così grande: essa crea in noi una tensione molto forte proprio a causa della sua essenzialità, per la straordinaria capacità del fotografo di "togliere" tutto ciò che non c'entra, di selezionare dalla caotica realtà visiva questi due elementi, al tempo stesso soli e totalizzanti: per i nostri occhi non c'è nulla al di fuori della fotografia, è tutto lì, e lì continua incessantemente a ruotare.

Un piccolo elemento di distrazione causerebbe certo la rottura di questa incastellatura visiva, di conseguenza anche della forte tensione dell'immagine; non è peraltro quasi mai sufficiente ritrarre in modo semplice una figura "elementare": artifici tecnici quali la luce e il contrasto, almeno nella fotografia in bianco e nero, sono fondamentali.

Spicca quindi la tecnica di "isolamento" di un'opportuna figura in netta contrapposizione con lo sfondo, anch'esso chiaramente funzionale. Tale tecnica è il risultato estremo della selezione spaziale, il raggiungimento dell'essenzialità a cui la fotografia tende poiché, come detto, parte da una realtà caotica data.

Notiamo ora una questione assai importante: più la fotografia è essenziale ed espressiva, più se ne avverte la "falsità", intesa come immagine "artefatta" nel senso propriamente etimologico di "fatta con arte". Questo porta in una direzione che ci costringe ad analizzare il rapporto che la fotografia ha con il proprio referente fisico, con la ormai famosa realtà visiva caotica da selezionare, con la materia da formalizzare. In altri termini, se una fotografia "induce" il lavoro mentale di cui abbiamo parlato, in che misura ciò è dovuto ad una "desuetudine" (s'intende, non nel senso di "obsolescenza") rispetto al nostro vedere quotidiano?

Poniamoci questa domanda osservando la fotografia 8. Siamo di fronte ad un chiaro caso di "isolamento" del soggetto "scoglio" che si staglia sullo sfondo "mare": l'essenzialità di cui abbiamo parlato è evidente. Volendo cioé confermare in assoluto le questioni emerse precedentemente, questa fotografia dovrebbe essere dotata di una discreta "tensione", dovrebbe cioé indurre nell'osservatore l'interesse e il coinvolgimento percettivo. Invece, con tutti gli sforzi possibili, essa ci appare banale, piatta, insignificante: certamente vanno considerati elementi negativi come la luce non felice, l'orizzonte non visibile causa la foschia, il conseguente fondersi del cielo e del mare in un tutt'uno grigiastro.

Tuttavia, la sensazione è che, anche capovolgendo in positivo questi fattori, non muti di molto il risultato espressivo. Il motivo è un altro: si è parlato prima del grado di intervento umano nella selezione e nella sottrazione come misura di espressività: nella fotografia "fatta con arte" si nota il lavoro del produttore che modella la realtà visiva, materia prima ineluttabile. Questa fotografia invece è l'esatto contrario di questo principio: si nota immediatamente che, chiunque si fosse trovato con una macchina fotografica in mano, in quell'esatto momento, avrebbe scattato la stessa e identica fotografia.

Il punto allora è questo: l'essenzialità va "creata" estrapolandola dal caos, non va colta laddove esiste già, dove ha già provveduto la natura in quei contesti ristretti e organizzati di cui si accennava prima. In realtà nella fotografia in questione non è stata operata quasi alcuna selezione, né spaziale né temporale, poiché un impegno, uno sforzo creativo, avrebbero portato a un risultato "diverso", rispetto a ciò che si sarebbe visto semplicemente "guardando", ovvero rispetto alla realtà percepibile.

Ecco quindi venire a galla la questione del rapporto con il referente,questione che non può essere elusa dal momento che, come abbiamo già detto, la realtà visiva è non solo la "materia prima" del fotografo, ma è la materia stessa che i nostri occhi colgono e organizzano quotidianamente: il loro lavoro è analogo dal punto di vista della selezione spaziale, con le debite differenze ottiche del mezzo meccanico.

Sarebbe dunque fuori luogo ritenere che questo quotidiano "modo di vedere", non influenzi il nostro modo di fruire di immagini selezionate dalla stessa realtà visiva. L'allontanamento opportuno dell'immagine fotografica dal vedere quotidiano è dunque un mezzo di creazione di tensione ed interesse intorno all'immagine stessa. Tale affermazione, pur vera, potrebbe però venire fraintesa: si potrebbe pensare che il conferire interesse ad un'immagine fotografica implichi necessariamente il far uso di mezzi tecnici non comuni (es. macrofotografia), oppure ritrarre oggetti o luoghi poco accessibili (fotosub, reportage esotici).

Certamente, questo è uno dei metodi, ma è anche quello che conferisce alla tecnica e alle possibilità finanziarie la superiorità sulla fantasia e la capacità espressiva della mente umana. Ciò che invece ci interessa analizzare ed evidenziare in questo contesto, è un'originalità certamente data dalle caratteristiche peculiari del mezzo tecnico, ma in modo indiretto; per chiarire, si vogliono citare i casi in cui è il "produttore" dell'immagine fotografica, l'uomo, a sfruttare a dovere il mezzo nelle sue più normali possibilità.

In sostanza, mentre esiste la fotografia che, troppo facilmente, ritrae ciò che l'occhio non è in grado di vedere, ora ci si vuole spostare nel campo di CIO' CHE L'OCCHIO E' PERFETTAMENTE IN GRADO DI VEDERE, MA CHE DI FATTO NON VEDE.

Ecco quindi apparire la "vera" originalità della fotografia, la vera "desuetudine" dalla visione quotidiana: il "mai visto" perchè mai selezionato, notato, colto. A questo proposito è possibile osservare la già citata fotografia 7. Dobbiamo fare, come già altre volte in questo lavoro, uno sforzo di immaginazione, al fine di rispondere alla seguente domanda: passando dietro a quell'automobile, ci saremmo fermati a guardare quel tipo di "inquadratura"? Molto probabilmente avremmo fatto con gli occhi la "panoramica" o la "carrellata", per dirla in linguaggio cinematografico, e saremmo passati oltre.

E' evidente allora che il discorso ci conduce verso una fotografia estremamente "creata": in questi casi specifici di fotografia con fini espressivi non si può parlare altro che di "produzione" di immagini. Le immagini nascono nella mente del produttore: egli ha il cosiddetto "occhio fotografico", che gli permette a priori di "vedere", di intuire il risultato di una selezione spazio-temporale opportuna sulla realtà che ha di fronte. Si può dire, allora, nello specifico dell'analisi dell'originalità del mezzo fotografico, che siamo di fronte al capovolgimento del concetto di quotidianità visiva: il banale diventa originale.

In altri termini, sembra che la totalità banale "contenga" la particolarità originale: essa va soltanto selezionata, e la fotografia svolge alla perfezione questo compito grazie alla sua peculiarità tecnica, che probabilmente nessun altro mezzo figurativo possiede in modo specifico.

Le citate fotografie hanno comunque un tipo di originalità molto "studiata": è evidente come la selezione non sia stata "colta" in modo estemporaneo ma minuziosamente costruita. Oltre a questo, si vorrebbe ricordare come semiologicamente si sia finora descritta un'operazione di "reistituzione di codice", in questo caso nel senso molto ampio (dandone per scontata l'esistenza) di codice della visione quotidiana.

Possiamo, invece, assistere ad una chiara violazione del codice già "fotografico", andando ad osservare fotografie con finalità meno espressive ma con connotazioni più esplicite sul piano informativo: in pratica, se prima abbiamo parlato di immagini che l'occhio non è "abituato a vedere" nella realtà visiva naturale, ora vediamo esempi di immagini che l'occhio non è abituato a vedere nella realtà già "mediata" di un mezzo figurativo, che è in questo caso la fotografia stessa.

In questo contesto, vedremo che si avrà a che fare con un'originalità più "catturata", avvicinandosi a un discorso di selezione più prettamente temporale. Le fotografie 9-10 ci danno quest'opportunità.

Entrambe sono basate sulla consuetudine di vedere il viso delle persone per poterle identificare, come detto in special modo nelle fotografie stesse, non tanto nel vedere quotidiano. La prima ritrae il notissimo Andreotti in procinto di affacciarsi ad una finestra: al di là di trovarsi di fronte un personaggio politico in una veste desueta, cioé in un atto normalissimo, non attinente al suo ruolo, tale personaggio è ritratto da tergo, quindi veramente "catturato", forse persino a sua insaputa, in una posizione proprio "fotograficamente" strana.

E' ovviamente funzionale a tutto anche l'identificazione del personaggio, tipica della fotografia giornalistica (se ne parlerà più avanti), al contrario invece della seconda fotografia. In quest'ultima abbiamo nuovamente due persone ritratte da tergo, di cui questa volta non interessa l'identificazione "anagrafica" ma quella professionale. Si tratta di due avvocati che camminano presumibilmente verso un'aula di tribunale, "catturati" anche qui a loro insaputa dal "mestiere" del fotografo, che è riuscito con l'originalità del "punto di vista" a creare una fotografia puramente denotativa ma formalmente interessante.

L'originalità della fotografia, data dal particolare punto di vista o dal particolare "taglio", fa scattare nel produttore il meccanismo della ricerca, ed è quindi positiva rispetto all'uso originale del mezzo tecnico che, pur ottenendo egregi risultati, sembra mettere in ombra le capacità dell'elemento umano nel "saper vedere", conferendo alla tecnica una sorta di supremazia.

ASPETTO SEMIOTICO

Finora si è dunque andati alla ricerca di "regole che, applicate nella produzione di un'immagine, rendono la lettura più interessante, più coinvolgente, insomma pongono le basi per una trasmissione di contenuto e di idee.

Come già altre volte in precedenza ragioniamo sul paragone con le arti figurative consacrate: l'impressione è che, più ancora oggi che non 50 anni fa, la pittura e la grafica siano mezzi espressivi quasi univocamente votati a trasmissione di contenuti artistici, o per lo meno di natura fortemente connotativa. Sul piano informativo, cioè denotativo, storicamente la fotografia, per motivi di comodità, costi, velocità di esecuzione, ha preso il posto dell'immagine grafica.

Sui giornali, ad esempio, il disegno è andato via via sparendo: oggi come oggi lo troviamo solo sotto forma di caricatura o illustrazione, quindi sempre con fini espressivi, mentre l'informazione pura e semplice viene svolta, a meno di casi eccezionali, dalla fotografia. Facendo una proporzione, forse un po' estremizzata, con la comunicazione verbale, possiamo dire che la pittura per le immagini sta come la poesia per le parole: la fotografia si occupa del resto, come d'altronde se ne occupa tutta la lingua non poetica.

Entrambe poi tendono (e riescono) a sconfinare anch'esse nell'arte: sia la lingua non poetica sia la fotografia, che assolvono per definizione a fini unicamente denotativi, sono in grado "anche" di esprimere contenuti artistici. Attraverso l'osservazione incrociata di generi diversi vediamo come le finalità di produzione e la circostanza e il contesto di lettura influiscano sul "linguaggio" usato, e al tempo stesso provino l'esistenza del linguaggio stesso.

FOTOGRAFIA COME "MEMORIA FISICA"

Iniziamo l'osservazione dai generi "dilettantistico" e "artistico". L'accostamento di questi due generi può subito apparire poco corretto in quanto al "dilettante" sarebbe più opportuno opporre il "professionista". La fotografia d'arte, d'altro canto, è oramai, in quasi tutti i casi, un aspetto della fotografia professionistica: non credo di poter identificare mostre o monografie di persone che non "vivano" di fotografia o comunque la cui attività primaria non sia la fotografia.

Certamente, il professionismo occupa oggi vari campi, quali la pubblicità, il giornalismo d'informazione, quello di divulgazione culturale, la scienza ecc. ecc.: la scelta dell'accostamento con la cosiddetta fotografia d'arte è motivata dal fatto che essa appare legata a quella dilettantistica da un immaginario "filo conduttore".

Agli estremi di questo filo troviamo due propositi, due punti d'arrivo chiaramente opposti, e fra loro infinitesime possibilità: il dilettante che desidera evolversi dal punto di vista delle "intenzioni" estetiche percorre sempre questo filo e trova come punto d'arrivo la fotografia d'arte, non gli altri generi di fotografia professionistica.

Partiamo dunque interrogandoci sulle finalità della produzione dilettantistica: alla luce degli innumerevoli reportage "vacanzieri" che tutti noi con malcelata noia abbiamo sempre visto in casa di amici o parenti, possiamo osservare come di prim'acchito essa sia al tempo stesso casuale e monotona, il che parrebbe contraddittorio.

Il termine "casualità" lo spiegherei così: si ha l'impressione, vedendo i classici due o tre rullini delle ferie o di un viaggio di un dilettante, che egli abbia scattato pezzo per pezzo un grosso mosaico paesaggistico. In sostanza il suo desiderio è stato quello di fotografare "tutto", ma, essendo ovviamente impossibile, sembra abbia in modo appunto "casuale" preso un po' qua un po' là, cercando il più possibile di dare l'idea della totalità. Chiaramente questo sembra inficiare tutti i precedenti discorsi fatti sulla fotografia come "selezione": se si segue tale logica non si bada affatto all'aspetto selettivo, ma si tenta se mai di eliminarlo. Non dobbiamo dimenticare però che quanto detto in precedenza riguardava la possibilità e la peculiarità tecnica della fotografia partendo dall'oggetto, e questi principi restano validi; ora stiamo parlando dell'uso effettivo del mezzo, quindi abbiamo spostato l'attenzione sull'agente, sul produttore, e le contraddizioni emergono.

Tornando alla casualità, allora, possiamo dire che nella descrizione di un luogo, a meno che esso abbia dei punti "precisi" che da soli "totalizzano" (la Tour Eiffel a Parigi, il Duomo a Milano), il dilettante tende a comporre, con immagini casuali, quindi non selezionate, il luogo stesso nella sua totalità. Ci si aspetta insomma di tutto vedendo questo genere di fotografia, al di là naturalmente dei suddetti punti "comandati" (vedremo poi da chi e perché): la sensazione parallela a questa è però quella apparentemente contraddittoria della monotonia, come dire che è stato ripreso un po' di tutto, senza badare a selezionare, ma tutto allo stesso modo.

Per spiegare meglio la contraddizione, ripetiamo soltanto apparente, si può fare il parallelo con la doppia articolazione della lingua: essa parte dalla "selezione da un sistema" (il piano paradigmatico) e si esplica attraverso un "processo di combinazione" degli elementi selezionati (il piano sintagmatico). La casualità è quindi sul piano della selezione, come già detto; infatti del sistema (il luogo da descrivere) noi vediamo diversi punti ma potrebbero essere molti altri senza mutare il risultato; la monotonia invece è sul piano del processo, cioè questi elementi selezionati in modo casuale vengono "combinati" più o meno sempre allo stesso modo, con gli stessi metodi formali. La sensazione è quindi che, partendo dal principio della fotografia come "selezione" dalla realtà visiva caotica di tratti pertinenti alla comunicazione, quella dilettantistica sia la più vicina alla realtà visiva stessa.

Il "contenuto", inteso come "idea" è quasi sempre nullo; la materia è stata sì formalizzata e tradotta in sostanza, ma a livello denotativo e non profondo; in altri termini ci si avvicina moltissimo alla "riproduzione" della realtà così come alcuni definiscono in generale la fotografia. Restano tuttavia molto chiari i connotati di un mezzo espressivo di "produzione" e tali connotati emergono per l'appunto dalla monotonia dell'espressione: alla casualità nella selezione della realtà visiva, ripetiamo, fa da contrappunto una rigidità assoluta nel "modo di rappresentare" questa casualità.

Allora, se il contenuto, e vedremo che si tratta solo di contenuto di tipo informativo o denotativo, è estremamente vario e casuale, l'espressione è estremamente rigida e quindi codificata. E' certamente più facile avvertire la soggiacenza di un codice in questo caso che non nella fotografia artistica: il testo estetico sfugge ovviamente molto di più ad un tentativo di formalizzazione, in quanto spesso è "innovativo".

Siamo dunque di fronte ad un campo di selezione amplissimo con un campo di combinazione molto ristretto. Ma qual è allora la finalità della fotografia dilettantistica? Sostanzialmente quella di "catturare" delle immagini, e di catturarne il più possibile nell'ambito di un luogo delimitato dall'opportunità della descrizione: per metterla in termini di linguaggio informatico, essa agisce come "memoria di massa" esattamente come i dischi o i nastri per il computer.

Allorché si stacca la spina esso "dimentica" ciò che aveva nelle memorie "elettroniche" RAM interne (che vanno alimentate affinché non perdano i dati, nient'altro che livelli di tensione elettrici); si deve quindi preventivamente provvedere a "registrare" sulla memoria fisica, detta appunto "di massa". In seguito questi dati possono essere reinseriti nelle memorie elettroniche, rivisti, rielaborati, modificati.

Il parallelo con questo tipo di fotografia appare plausibile; la differenza fondamentale, una delle tante che rendono ineluttabilmente la nostra memoria interna superiore a quelle dei computer, è che a noi la corrente non va via di colpo, e i nostri dati in memoria vengono smarriti solo parzialmente, e a volte possono anche riaffiorare.

Rimane però il ruolo della fotografia come "memoria fisica". Pierre Bourdieu, citando uno studio psicologico sulla fotografia, mette al primo posto "...la funzione di aiutare a superare l'angoscia provocata dal fluire del tempo, sia offrendo una sorta di sostituzione magica di ciò che il tempo ha distrutto, sia colmando i vuoti della memoria e fornendo spunto all'evocazione di ricordi associati, in breve suscitando l'illusione di vincere il potere distruttivo del tempo" [4].

Sul piano dell'espressione, inoltre, abbiamo visto come vi sia una discreta monotonia: non è infatti importante come si registrino questi dati, purché essi si possano in seguito rileggere. I computer hanno un "sistema operativo" che assolve a questo compito preciso e quindi, per sua natura, "monotono": tuttavia, da una marca all'altra esso cambia, di pochissimo ma cambia, creando quindi i ben noti problemi di "compatibilità". Allo stesso modo la presunta "registrazione" della realtà da parte della fotografia è sempre uguale, ma operata dall'uomo in maniera sempre leggermente diversa.

Se, anche in questo caso si trattasse di mera registrazione, tutte le fotografie dei turisti sarebbero identiche: c'è sicuramente monotonia, ripetiamo, ma solo perché non è influente ai fini del risultato (la registrazione di dati visivi sulla parte di realtà che interessa). L'espressione quindi non è importante, ma allora perché incontriamo monotonia e non infiniti casi diversi?

Le spiegazioni possono essere due: la prima è direttamente collegata alle questioni percettive già citate, ovvero alla tendenza alla semplificazione del nostro apparato visivo. Il problema è che in questo caso la semplificazione avviene a priori, non a posteriori, quindi leggiamo un'immagine in cui la tensione è già stata annullata.

L'altra è complementare a questa: l'esempio di immagini ufficiali e consacrate come, per citarne uno, le cartoline. Torniamo a questo proposito ai luoghi "comandati" di cui si parlava prima: è importante notare come le cartoline influenzino non solo la scelta selettiva ma anche quella formale.

E' vero che fotografiamo i vari "simboli" dei luoghi famosi perché indirizzati, in tale scelta, dall'intento "totalizzante" che questi elementi si sono visti conferire negli anni (e a volte nei secoli), ma è altrettanto vero che ci scopriamo a fotografarli sempre negli stessi modi e nelle stesse posizioni. In queste fotografie trascuriamo insomma lo "sforzo" creativo, un po' perché la finalità, come detto, è la registrazione del dato visivo, un po' perché la cartolina (o la guida turistica, insomma la fotografia descrittiva "ufficiale") ci fornisce un modello semplice e facilmente utilizzabile.

Non è un caso che, a volte, le cartoline sostituiscano addirittura le fotografie, e questo lo sanno benissimo i venditori di souvenir che rifilano serie immense di diapositive di luoghi visitati o, meglio ancora per loro, non visitabili. Tale finalità commerciale viene spesso alimentata da "effetti" di colorazione e trucchi vari, al fine di rendere "diversa" la fotografia, che rimane tuttavia sempre estremamente banale, monotona, senza tensione. Questo fenomeno non fa che peggiorare ulteriormente la produzione del dilettante, il quale tenta inconsciamente l'imitazione di esempi non motivati: nascono così veramente gli "stereotipi" dell'alba in montagna, del tramonto sul mare, del notturno cittadino ecc. ecc.

Siamo insomma di fronte a fotografie di stampo unicamente denotativo, in cui i tratti distintivi del luogo sono pertinenti come lo sono i tratti somatici di una persona nel caso di una fototessera. La "pertinenza" di tratti distintivi ci porta chiaramente su un altro discorso: poiché la registrazione di dati presuppone, in questo caso, la lettura possibile da parte di un grande numero di fruitori, è estremamente necessario rendere "identificabile" l'immagine.

L'esaltazione della questione identificativa, quindi il concetto di "verità" espresso dalla definizione sociale della fotografia già criticato, avviene in modo chiaro nella fotografia 11, ove troviamo una normalissima fotografia "di viaggio" dilettantistica che attua un duplice processo di identificazione. La finalità di tale fotografia è, cioé, quella di registrare in un sol colpo il luogo e la nostra "obiettiva" presenza nel luogo stesso, rispettivamente attraverso uno sfondo con monumenti o comunque elementi identificabili, e una figura altrettanto identificabile di un nostro parente o amico.

Ancora Bourdieu specifica: "La fotografia è ciò che si fa durante le vacanze, ma è anche ciò che fa le vacanze. (...) C'è la fotografia a testimoniare, per esempio, che si è avuto del tempo libero e ancora il tempo libero di fotografarlo. Sostituendo alla labile incertezza delle impressioni soggettive la certezza definitiva di un'immagine oggettiva, la fotografia appare predestinata a servire da trofeo." [5]

Partendo quindi dal preciso presupposto di una fotografia dilettantistica "di memoria", quindi prettamente informativa, denotativa, privilegiante il fattore identificativo della realtà ritratta, torniamo al "filo conduttore" succitato.

IDENTIFICAZIONE ED ESPRESSIONE

Si intendeva con questo una "strada" immaginaria che tenderebbe ad unire, con infinite possibilità intermedie, la fotografia dilettantistica con quella artistica; consideriamo un "capolinea" il presupposto di cui sopra, ovvero la fotografia "di memoria". Volendo descrivere il secondo "estremo", non dovremo far altro che osservare tutte le svariate fotografie di artisti che troviamo nelle varie mostre, nelle monografie, nelle riviste specializzate.

Scopriamo innanzi tutto come il fattore identificativo sia assolutamente trascurato, o comunque come sia evidente il tentativo di renderlo ininfluente: Fulvio Roiter (fotografia 12) arriva a fotografare un solo lampione di Piazza San Marco, e solo quello, per allontanare il più possibile l'idea che sia "fondamentale" il fatto di riconoscere Venezia.

Egli vuole, in questa fotografia, ritrarre una Venezia "comune", non la Venezia pubblica, turistica, codificata; quindi sceglie un elemento comune, di tutti, non simbolico; certamente, così facendo, è lui stesso a renderlo simbolico, e questa risulta proprio semioticamente una "istituzione di codice", data dalla dimensione ormai "sociale" della fotografia e dell'artista stesso.

A prescindere da questo, comunque, il secondo fattore evidente è che, alla non importanza dell'identificazione, fa da contrappunto l'importanza dell'espressione, della connotazione di contenuti, della veicolazione di idee: in pratica, allora, pochi dati da memorizzare, ma, sulla base della loro elaborazione, molti da creare.

Ancora citando il parallelo con l'informatica, la fotografia dilettantistica in genere dà l'impressione di essere un grosso archivio di dati, in cui l'intervento umano si riduce all'ordinamento e alla lettura periodica: al contrario, nella fotografia artistica l'archivio contiene pochi dati, quindi la lettura occupa una percentuale di tempo ed intervento umano minima, mentre l'elaborazione e il conseguente ottenimento di sempre nuovi dati (non più però di natura figurativa "fisica") è la parte più lunga, interessante e piacevole.

Gli estremi delle finalità della fotografia dilettantistica e della fotografia artistica sono quindi stati specificati: ci indirizzano su un asse ben preciso, che è quello identificazione vs espressione. Quale può essere allora, per il dilettante, la base del tentativo di conferire alla sua produzione uno spessore "artistico"? Semplicemente quello di allontanarsi dal primo estremo e di avvicinarsi al secondo: in altri termini, la fotografia del dilettante che non ha scopi identificativi, ovvero che ritrae un bosco qualsiasi su delle montagne qualsiasi, un tramonto qualsiasi su un mare qualsiasi ecc. ecc., ha ovviamente degli scopi espressivi. Laddove non siamo in grado di riconoscere i luoghi ritratti (riconoscere, s'intende, dal punto di vista distintivo) scopriamo un intento espressivo da parte del fotografo: il fatto poi che difficilmente il dilettante riesca a metterlo veramente in pratica, dipende senz'altro dai mezzi tecnici, dalle occasioni, e non ultima dalla mentalità riproduttiva di cui sopra, culturalmente e storicamente radicata.

In sostanza, per comunicare "idee", è necessario allontanarsi dall'intento di "memorizzare" immagini tipiche, di scoprire e riprodurre realtà "uniche" o "rare"; proprio con la realtà visiva comune si trasmettono idee, con un luogo qualsiasi o con un viso qualsiasi. In questo senso, le monografie di fotografi che illustrano paesi esotici, che ritraggono persone inavvicinabili, che ottengono effetti grazie a mezzi tecnici costosissimi, hanno nei confronti del dilettante un effetto demagogico, che lo relega forzatamente nella fotografia di "memoria", come detto prima.

Oltre a questo, il dimenticarsi dello scopo identificativo, dello scopo di "memoria", lascia spazio nell'intenzione e nell'attenzione del fotografo a tutte quelle considerazioni formali fatte nel capitolo relativo alla percezione: al momento dello scatto, ribadiamo ancora, è da ritenrsi importante, se si vuole un'immagine espressiva, dimenticarsi "cosa" si fotografa e preoccuparsi unicamente del "come" lo si fa.

FOTOGIORNALISMO

Proseguendo nella nostra osservazione, fra la fotografia professionistica che può essere utile al nostro lavoro, si è scelta quella del giornalismo da periodico, di "reportage", per intenderci non da quotidiano. La scelta è dovuta innanzi tutto al motivo di "distacco" dalla parola scritta (premessa di questo lavoro), ma soprattutto ci si è resi conto, durante il lavoro, di come sia difficile tracciare una sorta di confine tra la fotografia d'arte finora analizzata e un certo tipo di fotogiornalismo.

Si è riscontrata un'omogeneità nei metodi formali abbastanza evidente, il che conferma l'ipotesi di lavoro dell'esistenza di un linguaggio, nonchè un'ambivalenza, una versatilità di personaggi che scattano fotografie in entrambi i campi con uguale successo: osservando la fotografia 13 di Ernst Haas, ad esempio, abbiamo delle immagini che riassumono molte delle questioni dibattute.

La fugacità dell'espressione dei due visi, la loro "pertinenza", l'isolamento della donna rispetto allo "sfondo" delle altre persone, non devono però far dimenticare come questa fotografia si ponga su un piano diverso, che è appunto oggetto della nostra analisi che segue.

Ernst Haas, quindi, che siamo abituati a vedere alle prese con fotografie a colori aventi connotati assolutamente estetici, ha fatto anche, e, ripetiamo, con successo, del fotogiornalismo; non è certamente l'unico, dal momento che fra le monografie, cioè fra l'arte ufficiale, troviamo sovente nomi come Robert Capa, che devono la loro fama appunto al "reportage", al servizio informativo.

Oltre a ciò, l'impressione è che anche il fattore "tempo" giochi un ruolo importante nella definizione di "genere": non è escluso che la fotografia di Haas fra mezzo secolo abbia perduto i suoi contenuti storici, connotando non più elemento "guerra" ma soltanto quello riportato nel titolo, "angoscia di una madre", non motivato ma astratto appunto dal momento storico.

Ad ogni buon conto, il fotogiornalismo è nato praticamente con la fotografia, grazie alla definizione sociale e culturale di "verità obiettiva" ad essa attribuita all'inizio della sua istituzione (e da alcuni tuttora). E' a partire dalla fine della grande guerra, poi, che in Germania si sviluppa il fotogiornalismo che noi conosciamo, con nomi tipo Erich Salomon, Hans Baumann, l'editore Stefan Lorant, quindi Laszlo Moholy-Nagy, Alfred Eisenstaedt, André Kertesz come "artisti" associati alle varie riviste. Dando quindi per scontato che ad un certo livello si identificano fotografia d'arte e fotografia di reportage, vediamo di scoprire almeno una differenza attraverso l'argomento delle finalità fruitive, se non dal punto di vista formale o nella persona del produttore.

Osservando la fotografia 14 ritroviamo immediatamente i concetti espressi nella parte sulla percezione. In quest'immagine la figura in primo piano risponde perfettamente alle questioni sulla prospettiva: si ha la presenza di un elemento che occupa una buona parte del campo visivo in primo piano conferendo profondità all'immagine.

Dobbiamo però aggiungere, e non si può non notarlo immediatamente, che la tensione di quest'ultima fotografia è totalmente diversa: non c'è dubbio che alcuni metodi "formali" siano analoghi, ma i meccanismi di fruizione sono decisamente diversi.

Vogliamo con questo sostenere che non siamo di fronte al soggetto "qualsiasi" che ci invita a "passeggiare" con l'attenzione, a "lavorare" con l'occhio e la mente per organizzare le forme e attualizzare il contenuto. In questo caso ci viene consegnato un messaggio chiuso, chiaro, inequivocabile, cioè siamo chiamati, paradossalmente con gli stessi metodi formali, ad "identificare" immediatamente la situazione: il contenuto sta nella proprietà stessa del soggetto, oltre che nel modo in cui è stato ritratto.

E' chiaro, però, che ci troviamo di fronte a fotogiornalismo di reportage ad alto livello, infatti le due fotografie provengono dal settimanale "Epoca", che negli anni '70 aveva in redazione fotografi della portata di Mario De Biase, Giorgio Lotti, Pepi Merisio, che sono poi ben presto entrati nelle monografie e nelle collezioni dedicate agli "artisti". Il fotogiornalismo ci consegna dunque un prodotto che, nel trasmettere, può ricalcare i metodi della fotografia "artistica", ma inverte esattamente i fattori relativi alla questione "identificativa".

La fotografia d'arte cresce in connotazione quanto meno siamo in grado di "rintracciarla" nella realtà visiva comune, quanto più la troviamo astratta dal riconoscibile. La fotografia giornalistica è invece tanto più efficace quanto più ci "scaglia" addosso l'idea che vuole veicolare, quanto meno facciamo fatica a renderci conto della situazione e ad "isolare" le proprietà del soggetto. In altri termini, gli stessi metodi formali, nel primo caso "rallentano" l'interpretazione, allargando di per sé il campo delle possibili letture e facendo seguire alla semplificazione formale una "amplificazione" contenutistica; nel secondo caso l'interpretazione deve essere immediata e restringere le possibilità ad una ed una sola idea.

Ne consegue allora una semplificazione del contenuto: esso ne concatena certo degli altri, ma oramai al di fuori della natura stessa della fotografia. Per fare un parallelo con quanto asserito prima, nelle fotografie di Berengo Gardin abbiamo "tutto il mondo" racchiuso entro i limiti della fotografia, e lì concentriamo l'attenzione attualizzando dei contenuti: nelle fotografie di reportage già citate siamo invece "invitati" a distogliere l'attenzione dalla contingenza spazio-temporale della fotografia stessa per riflettere sul contenuto, insito nell'immagine ma anche "oltre" i suoi confini.

Ciò che vediamo è "testimonianza", esempio, una "parte per il tutto", e quindi non è necessario soffermarsi con l'occhio e l'attenzione, ma una volta captato il messaggio si passa oltre, si riflette su di esso (o comunque, non dimentichiamolo, si va a leggere l'articolo).

Per specificare ulteriormente, si può asserire quanto segue: si potrebbe certemente stare per ore a contemplare un quadro, scrivendo su ciò che viene in mente fiumi di parole, come un'illimitata "opera aperta"; al contrario di fronte alla fotografia 14 viene in mente subito ed unicamente una parola: fame; tutto ciò che ne segue nulla ha più a che fare con le proprietà dell'immagine stessa.

E' quindi "testimonianza" ciò che distingue i due generi, il che equivale a dire "verità perpetuata", fotografia anch'essa di "memoria", ma la cui finalità non è solo quella di memorizzare dati, bensì più ancora quella di "guidare" l'attualizzazione dell'idea: l'elaborazione è talmente "chiusa" ed immediata da essere quasi scritta nell'immagine stessa; siamo di fronte ad una quasi "sovrapposizione" spazio-temporale della fruizione del contenuto sull'espressione.

Siamo quindi perfettamente consci che la fotografia giornalistica non punta affatto su quella "ambiguità" ed "autoriflessività" di fronte a cui ci troviamo nel caso di fruizione di testi artistici. Tale fotografia deve raggiungere il suo scopo il più velocemente possibile, e, per fare questo, esattamente come la fotografia artistica, crea quella "tensione", quella rottura di continuità nel nostro panorama visivo, di cui parla Arnheim, e con cui il nostro sistema percettivo deve fare i conti. L'immediata identificazione del soggetto (o della situazione), ricordiamo sempre nel fotogiornalismo ad alto livello, crea però un'attualizzazione del contenuto altrettanto violenta e quindi efficace, che si trasferisce in un entropia a livello del contenuto stesso, sia esso psicologico, storico, politico.

La forma, allora, è in questo caso un veicolo che procede a grande velocità, ci porta immediatamente a destinazione, non ci invoglia a proseguire il viaggio, peraltro non piacevole; nella fotografia d'arte, al contrario, siamo invitati ad un piacevole viaggio e ad una pacata e prolungata esplorazione. Comunque, proprio perchè ha bisogno di una veloce presa di coscienza da parte del fruitore, la fotografia giornalistica fa uso, in genere, di mezzi più elementari rispetto a quelli della ridondanza, del rapporto figura/sfondo ecc. ecc.

Uno dei più usati è quello della "composizione", ovvero dell'unione per analogia o per contrasto di due o più elementi, che sono legati da un qualche contenuto: abbastanza eloquenti sono le fotografie 15-16-17.

Le prime due sono analoghe, nel senso che abbiamo due elementi in contrasto fra loro, che sono ancora una volta presi come "testimonianza": nella 15, la differenza di status sociale, la posizione ribassata (in senso fisico e metaforico) e lo sguardo fra l'invidioso e lo sprezzante del signore seduto, non possono fare a meno dell'identificazione di Gianni Agnelli da parte del lettore, elemento essenziale all'attualizzazione del sia pur elementare contenuto; certamente qui non mancherà la didascalia per il "lettore possibile" non informato o non fisionomista.

Nella 16 la semplicità dell'attualizzazione passa attraverso il contrasto tra il colore della pelle di chi si diverte in piscina e chi si veste di panni evidentemente da lavoro: in questo caso la differenza razziale come evento "universale" può al massimo richiedere una didascalia di precisazione sul luogo.

Nella 17 invece il contrasto è debole, ma è l'elemento di identificazione ad avere un ruolo fondamentale nell'attualizzazione: chi non capirebbe infatti che viene fotografato uno strato di schiuma nell'acqua della Laguna di Venezia? E' quindi sempre fondamentale l'identificazione di un elemento, di una situazione che può essere "protagonista" oppure può fungere da "contesto", come nella fotografia appena analizzata.

Di esempi di "contestualizzazione" ancora più semplice, immediata e generica, ne sono pieni i rotocalchi: ad esempio, le comunissime fotografie che rappresentano una serie di personaggi noti, ma con viso inespressivo o sorriso a malapena da fototessera; essi sono però calati in un contesto, rappresentato dagli elementi (o dal singolo elemento) che li circondano.

Tali elementi identificano volta per volta famiglia, avventura, esclusività, in altre parole rimandano a "valori" di cui sono simbolo; viene effettivamente da chiedersi, in realtà, chi voglia essere il soggetto di queste fotografie, il personaggio o il contesto stesso.

Direi che è effettivamente il contesto il vero soggetto dell'immagine, in quanto attraverso esso il giornale tende a far passare la sua ideologia: è il contesto l'elemento da identificare per captare il messaggio, non certo il viso standardizzato ed inespressivo del personaggio, che al massimo funge da "testimonial" (per dirla in gergo pubblicitario), come esempio per la sua notorietà, ma non per la sua "proprietà".

Partiti dunque dall'élite del fotogiornalismo, ci stiamo avvicinando a quel concetto di fotografia di basso livello espressivo che, abbiamo visto nel capitolo precedente, opera dei dilettanti: nel caso in questione non possiamo però parlare di fotografia di "memoria", in quanto abbiamo visto come tutto il fotogiornalismo sia in pratica fotografia di "memoria", particolarmente di testimonianza o "memoria finalizzata".

La distinzione sulla base dell'identificazione del soggetto, sulla sua non-proprietà come indice di livello espressivo, non è valida, poiché il fotogiornalismo non può permettersi di esibire soggetti comuni, deve mettere come condizione prima ed indispensabile l'identificazione del soggetto o della situazione da parte del fruitore: vi sono però, come abbiamo visto, vari livelli di difficoltà nel "prendere coscienza" di una fotografia giornalistica, che conferiscono vari livelli di espressione, potremmo dire di violenza del contenuto, anch'esso in parte realizzato grazie alla "forma". Teoricamente il livello più basso si raggiunge in quegli articoli di cronaca "comune" corredati di fototessera o paesaggio qualunque, che nessun senso hanno senza didascalia, in quanto essa è l'unico mezzo per identificare il soggetto; a rigor di logica si potrebbe obiettare come qualsiasi fotografia di qualsiasi persona o luogo potrebbe andar bene, visto che il pubblico non è in grado di identificare nulla e, anzi, la didascalia da sola otterrebbe lo stesso effetto comunicativo.

Un uso particolare del ritratto è da analizzare nelle fotografie caratteristiche dell'Espresso: sulla base di quanto detto in precedenza, possiamo asserire, anche in questi casi, di essere di fronte ad operazioni di selezione temporale molto azzeccate. Si tratta sempre di legare delle connotazioni caratteriali, o supposte tali, al personaggio in questione; al contrario del ritratto "d'arte", però, qui l'espressione del viso non ricopre un ruolo fondamentale.

Il fondamento è sempre l'identificazione, come ripetiamo, e subito dopo viene il "contorno", vale a dire un qualche elemento, normalmente banale, che caratterizza appunto il personaggio: ne sono esempio le fotografie 18-19-20, ovvero l'aspetto marziale di Gheddafi, quello teatrale di Carmelo Bene, quello pensoso di Alberoni.

E' evidente che si tratta di connotazione "debole", in quanto tre persone qualsiasi in questo atteggiamento non avrebbero connotato nulla, e nella fotografia d'arte tali connotazioni vengono rivelate esclusivamente con l'espressione del viso, anche con visi non noti.

Operazione analoga si effettua "mentendo" sul personaggio, dando una sensazione di falsità talmente evidente da assumere toni grotteschi: in questo modo si resta in un particolare punto intermedio tra il vero e il falso. Sono soprattutto i politici ad essere bersaglio di questa tecnica: nella fotografia 21, ad esempio, il malcapitato (allora) Ministro del Tesoro Goria sembra scappare per tentare di nascondersi, dopo aver probabilmente effettuato un'operazione sulla finanza pubblica (di cui parlerà l'articolo) non proprio piacevole per le tasche dei contribuenti, e implicitamente, si presume, dei lettori.


Note all'articolo

[1] e [3] ARNHEIM, Rudolf, ARTE E PERCEZIONE VISIVA - Feltrinelli 1986

[2] GOMBRICH, Ernst, IL SENSO DELL'ORDINE. STUDIO SULLA PSICOLOGIA DELL'ARTE DECORATIVA - Einaudi 1984

[4] e [5] BOURDIEU, Pierre, LA FOTOGRAFIA. UN'ARTE MEDIA - Guaraldi 1972


Massimo Marighella





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