Fin verso la fine del secolo scorso il professionista del ritratto fotografico
preferisce chiamare atelier e non studio il luogo dove svolge il suo lavoro:
il termine francese ben si presta per accreditare l'equivoco sull' "arte"
della rappresentazione ed aumentare la confusione tra pittura e fotografia.
Una folta schiera di fotografi si è in passato preoccupata, e altri
ancora continuano a farlo oggi, di sottolineare quel tanto o quel poco
di manualità che il processo ottico e chimico richiedono.
Una sorta di complesso di inferiorità perseguita
la fotografia da un secolo e mezzo: la meccanicità dei procedimenti
appare ai più incompatibile con la raffigurazione del volto umano
che tutta la nostra storia culturale ci ricorda essere fatto a "immagine
e somiglianza" del Creatore. È per questo che un minimo di
controllo creativo sulla produzione delle icone è il prezzo da pagare
per rendere accettabile il sacrilegio.
Una cosa è consumare materiale fotografico
che serva per ricordare a noi stessi quando i figli correvano sul prato,
altra cosa è affidare ad una dignitosa immagine il compito di rappresentarci
permanente presso gli altri. È così che, con particolare
disponibilità psicologica ci si recava dal professionista che orgogliosamente
si dichiarava pittore-fotografo. Un buon numero di artisti alla fine dell'Ottocento
abbandonano il pennello per passare a trafficare con lastre e sostanze
chimiche, per alcuni di loro la scelta si dimostrerà reversibile,
la maggioranza continuerà invece ad approfittare dei proventi che
la nuova attività in promettente espansione si dimostrerà
in grado di fornire.
In effetti, difficile è stabilire fino a che
punto gli interventi e le scelte dell'operatore siano determinanti per
il conseguimento di alcuni risultati e di conseguenza quali siano i confini
tra arte e artigianato. Ciò era tanto più vero quando i materiali
sensibili erano fabbricati dagli stessi operatori che li utilizzavano.
L'equivoco viene costantemente alimentato dai tempi di Daguerre ad oggi
con diverse ed attente scelte: una di queste consisteva in passato, nel
mostrare, stampati sul retro dei cartoncini di supporto che le stampe avevano,
i simboli della pittura intrecciati e confusi con quelli della fotografia.
Un'altra decisione che i professionisti presero per sottolineare la qualità
del loro lavoro e la non riproducibilità dilettantistica di certi
procedimenti fu l'adozione di raffinatissime tecniche che consentivano
un ampio intervento manuale e portavano a risultati di altissimo pregio.
L'antracotipia, i processi alla gomma bicromata,
alla gomma azotipica, agli inchiostri grassi ecc. consentivano l'ottenimento
di "textures" originalissime e la possibilità di estendere
il controllo del contrasto non solo all'immagine nel suo complesso ma ai
singoli particolari di essa. Dopo l'annerimento diretto, l'uso di fototipi
plurimi, lo spoglio progressivo degli elementi dell'icona fino alla densità
desiderata e il riporto delle polveri o l'uso degli oli, permettevano di
fabbricare fotografie che poco avevano a che spartire con i sali sensibili
che all'inizio avevano contribuito a formarle. Ogni pezzo ridiventava così
qualcosa di unico ed irripetibile aumentando a dismisura, e questo era
ciò che veramente interessava, il suo valore economico.
L'abilità e il costo in termini di preparazione
professionale e tempo che queste tecniche richiedevano fecero progressivamente
cadere in disuso ogni complessa manipolazione ma la possibilità
della loro applicazione è stata ed è un sostanzioso argomento
a favore delle tesi di coloro che ancora oggi sostengono l'impossibilità
di tracciare un confine preciso tra fotografia e pittura.
Gabriele Chiesa