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Vincenzo Coronati

Intervista a Vincenzo Coronati, ottobre 1989

-----Messaggio Originale----- 
Da: "Coronati Vincenzo - Dip. di Sociologia e Ricerca Sociale"
vincenzo.coronati@UNIMIB.IT
A: gribrescia@GEOCITIES.COM
Data invio: martedì 1 febbraio 2000 13.05

caro gabriele,quale piacere incontrari nella rete
ciao
vince

Vincenzo Coronati un bel po' di anni fa... Ecco l'E-mail che mi era arrivata.
Erano una decina d'anni che non avevo più notizie di Vincenzo.
La colpa era mia... Nel mare degli eventi della vita avevo finito col perderlo.
Ecco invece un inaspettato messaggio! Quello che segue è il modesto ringraziamento per non avermi dimenticato.
È un'intervista comparsa nell'ottobre 1989 sul numero 30 de "IL FOTOGRAFO PROFESSIONISTA", periodico della KODAK S.p.a. - divisione professional photografy (io tengo via tutto!).
Purtroppo il pezzo non è firmato e non sono in grado di citare il nome dell'autore.

Vincenzo Coronati

Giovane autore, ha maturato una variegata esperienza fra Parigi e Milano, esplorando e confrontandosi continuamente con panorami artistici diversi, spaziando dalla pittura alla letteratura, alla scenografia. È arrivato ora a un momento di sintesi personale, che è anche un punto di partenza alla ricerca di nuovi spazi di espressione.

Vediamo, per fare conoscenza, l'iter dei Suo approccio alla Sua attuale professione. Come è arrivato alla fotografia?

Per scelta razionale ... direi proprio di no. Per caso, nemmeno. Diciamo che è stata spinta interiore! La prima foto venduta a quindici anni a un giornale locale per 3.560 lire, più IVA naturalmente, rappresentava un chitarrista sul palcoscenico: sbagliai l'esposizione e gli bruciai tutta la faccia!
Lasciai le magistrali per iscrivermi all'Istituto d'Arte di Monza; lì ho conosciuto Ennio Vicario, a mio parere uno dei migliori fotografi e stampatori contemporanei. E per me è stato non solo un maestro, ma un grande amico. Non mi ha mai imposto di fare una cosa come voleva lui, e mi ha insegnato a voler bene alla fotografia. Durante le lezioni a scuola ho imparato a giocare con i geometrismi in bianco e nero, ho imparato a giocare con le doghe che si muovono al sole, ho imparato a rispettare la luce del mattino presto e quella dell'imbrunire, quando la luce è bianca.
Ho iniziato a lavorare come free lance con agenzie.
Poi per qualche tempo, affascinato dalla televisione, ho tradito la fotografia. Ma ormai il "viaggio" era iniziato, e sono stato riassorbito completamente, fagocitato dalla fotografia: è una cosa che ti emoziona a tal punto che non puoi più smettere.

Privilegia qualche settore, qualche tema in particolare?

Io oggi mi definisco un reporter. Ma c'è da dire una cosa importante: secondo me un fotografo, sia che scatti in prima linea o dentro al suo studio, la cosa più importante che ha è la fotografia.
E lo stesso discorso vale per la tecnologia: non importa che tu abbia per le mani l'ultimo modello di macchina fotografica o una macchina giocattolo: il rapporto è sempre quello di una scatola, del materiale sensibile, della tua sensibilità e di chi ti sta davanti. E un essere umano lo ami, un oggetto lo guardi, lo studi. E basta. Devi pensare solo alla fotografia.
Pensando in questa maniera si è più privilegiati a essere dei reporter: non dico dei buoni reporter, però dei reporter con un minimo di rispetto per le proprie esigenze di espressione.

Perché riesce ad esprimersi meglio nel reportage? Almeno oggi, al di là dei fatto che magari domani si dedicherà a un altro campo.

Posso rispondere con una favoletta? Noi siamo arrivati ai centocinquanta anni di fotografia. Credo che abbiamo davanti ancora cinquanta anni di emulsioni e di chimica, che sono l'unico strumento del fotografo. Poi ci saranno altre cose, grandi, splendide cose. Ma non si parlerà più di fotografia. E tra duemila anni ci sarà della gente sulla faccia della terra che troverà delle riviste, dei microfilm, delle fotografie su emulsione. Quindi la fotografia è durata duecento anni: quello che voglio fare adesso è dare modo ai miei figli e ai figli dei miei figli di rendersi conto di come veramente eravamo. Un concetto forse romantico.

Quindi fotografia come testimonianza?

Sì, come testimonianza, come complicità della fotografia con la storia. Quando non ci sei più tu a confermare fisicamente quello che vuoi dire a tutti i costi in una fotografia, ci saranno le tue fotografie a parlare.

Un po' come il pittore?

No, è diverso, perché il pittore è un'artista. li pittore è una persona che riesce a strumentalizzare la propria creatività. Strumentalizzare nel vero senso della parola e non nel senso cattivo: cioè ha un'idea, ed è privilegiato per questa sua idea, e la realizzazione viene dal suo gesto. Fisico. Complesso. Totalizzante.
Il fotografo, invece, è un artigiano. Ha un input nella testa, un'idea e poi ha la possibilitá di regolare questo manufatto con dei meccanismi precisi.
Io devo solo scattare. E in quello scatto ci deve essere tutto: ci sono io, c'è una storia da raccontare, c'è il cliente da soddisfare ...
E per me non è arte, questa. E avere una buona professionalità. Se poi c'è un piccolo spiraglio di arte ... io credo che sia nell'emozione e nell'amore che ci metti a fare le cose: ma tutto è arte, allora. Come ti comporti con la gente. Come fai il tuo lavoro.
Essere fotografi è una filosofia, una filosofia di vita dalla mattina quando ti svegli alla sera. La coerenza di essere se stessi. Senza trasgredire le norme, senza aggredire nessuno, rispettando se stessi e gli altri.
Perché riesco ad esprimermi meglio in questa forma di espressione? L semplice: perché credo realmente che la fotografia abbia un fine sociale. Ecco: ricorderà un'epoca in cui l'uomo ha gestito la sua mente in una maniera diversa. Ha usato un mezzo d'espressione meccanico, ci si è dedicato con amore ed affetto, ci ha speso la vita ed ha sudato veramente l'anima per farlo.

Perché sceglie il bianco e nero piuttosto che il colore?

Diciamo che non scelgo il bianco e nero, privilegio il bianco e nero.
E sempre questione di luce. Con il bianco e nero le luci te le puoi giocare come vuoi. Con il colore devi attendere o costruire la luce. Nel bianco e nero invece ti puoi muovere intorno alla luce.
Tu decidi di fare una fotografia a colori. Benissimo. La faccio alle sei e mezza dei mattino perché? li sole si sta alzando e l'atmosfera è tutta sul rosso-arancione. Sta andando dal rosso-arancione verso il rosso, verso il giallo, verso il bianco. Poi a un certo punto il sole sta diventando giallo, rosso, e c'è il cielo che è tutto azzurro perché c'è ancora la notte, l'alba. In quel momento si mescolano le due luci. Hai la luce bianca, pura. E allora tu decidi che le tue foto a colori le fai con quella luce bianca, pura, che puoi gestire in quell'attimo.
Perché è soltanto un attimo, perché non puoi sbagliare. Lì c'è il bianco, puro! Che può piacere o non piacere: a me piace.
Il colore va sempre ad avere dei referenti. Ogni colore, percepito da ognuno di noi, evoca qualcosa di ben preciso.
Invece con il bianco e nero hai una tonalità che va dal bianco al nero: il bianco rimane l'identità luce, quella che si cerca ogni momento per il colore oppure che si crea in studio. E con il bianco e il nero puoi fare il contrappunto, con un ripetersi armonico di ritmi tra bianco e nero. Con il bianco e il nero puoi inventare le immagini. L'architettura,
per esempio, ha dei piani sfalsati: ci sono dei bianchi che vanno a colpire dei neri, dando le profondità. Il contrappunto!
E con il bianco e nero hai la possibilità di farlo. Anche nel ritratto. Nel reportage è ancora più divertente.
Si dipende meno dalla luce di quanto si dipende invece con il colore. Riesco a tirare fuori dei valori che mi sono mancati durante l'esposizione. Io lavoro moltissimo in trentacinque millimetri, e non si può lavorare a sviluppo zonale con il trentacinque millimetri: è un formato che impone dei ritmi precisi. Il procedimento per arrivare al controllo delle luci nello stili life ti serve poi nel reportage, anche se a prima vista sembrano due mondi molto lontani: è un modo di conoscere la luce, di impadronirsene.
A questo punto devi avere la luce. O la gestisci, o te la costruisci o te la vai a cercare. Tutto questo nel colore ti fa esprimere in una certa maniera, ti permette di entrare nell'emotività della gente.
Quindi il colore è utilissimo nella pubblicità, utilissimo nelle grandi campagne.
Il bianco e nero generalmente stipula, con chi lo guarda, un contratto di tragedia, un contratto di drammaturgia. Oppure l'opposto, di amore e poesia. E più difficile che si instauri un rapporto banale.

Quali sono le qualità che ritiene più importanti per un professionista fotografo che vuole arrivare al top: passione, talento, impegno, chiarezza di idee, tecnica ...

Essere curioso. Essere curioso e imparare a farlo con discrezione.
E poi è importante studiare. Studiare se stessi, studiare gli altri, studiare cos'hanno detto, cos'hanno dipinto, cos'hanno scolpito, cos'hanno costruito.
Conoscere la letteratura. Amare la poesia. Il cinema. Riconoscere il buon antiquariato da quello cattivo. Capire di che scuola è un'opera d'arte. Intuire una provenienza storica, ecco, questo è il lavoro vero del fotografo: che deve vivere costantemente vicino agli artisti, perché sono loro la fucina delle idee.
Un fotografo, insomma, non dovrebbe interessarsi solo di fotografia.
Se va a fotografare un magnate dei computer deve anche capire come funziona il computer. Se vuole fare le fotografie sullo shuttle, e lì è il guaio, deve fare l'astronauta!
Poi occorre imparare a giudicare le proprie foto, e non è facile. All'Accademia di Belle Arti c'era Zeno Biroli, mio docente di Storia dell'Arte, che mi ha insegnato a distaccarmi dalle fotografie, e a pensare. Un giorno mi ha detto: 'Trova a pensare per un attimo che quelle fotografie non le hai fatte tu". lo da allora faccio così. Mi sforzo di ricordarmi che non tutto quello che piace a me deve piacere anche agli altri, e non tutto quello che piace agli altri deve piacere a me. Non è facile.
Quello che voglio è, oggi, fare delle fotografie che mi piacciono di più di quelle che ho fatto ieri. Basta. Se poi tiro fuori ogni tanto una fotografia che ho scattato tempo addietro, e mi piace, sono stato ancora più bravo, e sono contento.

Dove vuole arrivare?

Mi piacerebbe, non so, tra dieci anni, mettere in piedi una scuola di fotografia, una vera grande scuola di fotografia in Italia. Una scuola dove la gente viene a imparare le lingue, la letteratura, il metodo di lettura della storia dell'arte, psicologia e perché no anche un po' di filosofia.
Dove voglio arrivare ... C'è una canzone di Paolo Conte, bellissima. Aeronautico è il volo ... vuoto abissale tra noi.
Non lo so! Non ne ho la più pallida idea ... da grande cosa voglio fare? Io Vincenzo Coronati quando sarò grande voglio fare ... (pausa) il fotografo!

Sì, non ci vedo altro.



Tutte le foto pubblicate sono state realizzate su pellicola T-Max 400 Professional tirata di uno stop.

L'intervista e le immagini sono state tratte dal numero 30 de "IL FOTOGRAFO PROFESSIONISTA", periodico della KODAK S.p.a. - divisione professional photografy - ottobre 1989


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